Calano investimenti e Pil, persi 700 mila posti di lavoro. 1 su 3 rinuncia a cercare un lavoro regolare
Confindustria fa il check-up al Mezzogiorno: «Motori al minimo, ma risorse e potenzialità»
[29 Dicembre 2014]
Se alla conferenza stampa di fine anno del premier Matteo Renzi (Nella foto) si respirava l’ottimismo della volontà ed i gufi venivano abbattuti come fagiani, è certamente diversa l’aria che circola nell’Indice Sintetico del Check Up, elaborato da Confindustria e SRM-Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (centro studi del Gruppo Intesa Sanpaolo) che afferma: «Si chiude con pochissime luci e molte ombre il settimo anno di crisi per l’economia del Mezzogiorno che, anche per il 2014, fa registrare il segno meno nella gran parte degli indicatori».
Infatti se, come dice Renzi, il 2014 sembra sia stato l’anno record degli investimenti stranieri in Italia, l’indice Sintetico del Check Up, al Sud è «ben al di sotto del dato di partenza del 2007, ed in calo ulteriore rispetto al minimo già registrato nel 2013. A deprimere l’indice sono gli investimenti pubblici e privati, stimati in calo di quasi 29 miliardi tra il 2007 ed il 2014; il Pil stimato in calo di oltre 51 miliardi di euro; e l’occupazione, con il numero degli occupati ben al di sotto della soglia psicologica dei 6 milioni, ed un tasso di disoccupazione che ha sfondato il tetto del 20%».
Secondo i calcoli di Confindustria e SRM, «Nei primi 9 mesi del 2014, 88 mila imprese meridionali hanno chiuso i battenti, ad un ritmo di 326 cessazioni al giorno, non compensate dalle nuove iscrizioni: il saldo del 2014 vede, infatti, 10 mila imprese in meno. Le sofferenze bancarie sono ormai ben oltre quota 36 miliardi di euro. Le imprese che restano vedono erodere il loro fatturato (-1,8%), la loro redditività (RoI ridotto di oltre 3 punti dal 2007) e i loro margini, anche per effetto dell’aumento della pressione fiscale: le imprese in perdita nel Mezzogiorno sono circa 1/3 del totale, e il 5,5% di loro è in perdita dopo il pagamento delle imposte. Segno di margini sempre più esigui, ma anche di una pressione fiscale, soprattutto locale, sempre più opprimente: come certifica la Banca d’Italia, nel 2011-12 le entrate fiscali sono aumentate dell’1,7% all’anno nel Mezzogiorno, dove ormai il rapporto tra gettito fiscale e Pil è ormai prossimo a quello del Centro-Nord».
Come sempre si trascura il “nero” (spesso criminale), notoriamente molto copioso in alcune regioni e l’evasione fiscale endemica, ma questo è un altro discorso.
Il rapporto invece parla di segnali contrastanti che vengono dalle esportazioni: «Nel medio lungo periodo, infatti, l’export si conferma la principale variabile positiva dell‘economia meridionale (+2,7% rispetto al dato pre-crisi del 2007) ma, nel complesso, anche questa variabile sta conoscendo negli ultimi mesi un preoccupante rallentamento, essendo fortemente influenzata dall’instabilità del pezzo del petrolio (che costituisce parte importante dell’export meridionale). Nel 2014 migliora infatti l’export dell’automotive e dell’aeronautico (+5,1% rispetto ad un anno fa), della meccanica (+4,3%) e del metallurgico (+13,9%), trainato dalla ripresa delle esportazioni dell’Ilvba di Taranto: in calo invece, oltre ai prodotti della raffinazione, la chimica, la farmaceutica e la gomma e plastica. L’agroalimentare è il settore che più ha visto crescere le proprie esportazioni dall’avvio della crisi (+40,5%, con un incremento in valore di oltre 1,2 miliardi di euro)».
Insomma, nnostante tutto a Sud qualcosa si muove e «Continua a crescere il numero delle società di capitali (+4,4% nell’ultimo anno, nonostante il calo delle imprese attive), come il numero delle start up (+45,6% nella sola seconda parte del 2014); crescono le imprese in rete (oltre 2.200) e cala per la prima volta il numero medio delle società con almeno un protesto nell’anno. Soprattutto, come mostra la Banca d’Italia, la domanda e l’offerta di credito tendono a stabilizzarsi (anche grazie all’intervento della BCE), dopo un lungo periodo in cui alla crescita della domanda ha fatto riscontro un irrigidimento delle condizioni di offerta e, di conseguenza, una riduzione degli impieghi (-1,8%)».
Ma Confindustria avverte che «Tali segnali, tuttavia, non sono ancora sufficienti ad invertire la tendenza, anche perché concentrati in alcune aree e con numeri ancora troppo esigui e, soprattutto, non supportati da una azione pubblica convintamente anticiclica, se si eccettua l’effettivo saldo di buona parte dei debiti della PA verso le imprese. Tra il 2009 e il 2013, infatti, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno si è ridotta di oltre 5 miliardi di euro, tornando ai valori del 1996, contribuendo alla riduzione del numero e del valore degli appalti pubblici. Di valore sempre più ridotto sono, inoltre, le gare di Partenariato Pubblico-Privato bandite al Sud, e pressoché dimezzati, rispetto all’anno precedente i mutui concessi agli Enti locali per il finanziamento degli investimenti. Si realizzano, dunque, sempre meno investimenti pubblici, sia che lo Stato li finanzi direttamente sia che li promuova indirettamente».
Qui – lasciando perdere a sacrosanta rivendicazione di ottenere i debiti contratti con le imprese dalle pubbliche amministrazioni – siamo ad uno dei problemi irrisolti di Confindustria e dell’imprenditoria italiana in generale: da una parte si chiedono draconiani tagli alla spesa pubblica, individuata spesso come il male assoluto ed il laccio che strozza il libero mercato, dall’altro ci si lamenta perché la spesa pubblica non sostiene con ingenti finanziamenti ai privati ed appalti l’economia in funzione anticiclica.
E’ difficile che nel Paese più corrotto d’Europa – con punte record proprio nel Meridione – siano gli appalti pubblici a ridare potenza ad «un Mezzogiorno con il motore al minimo», come lo definisce la Confindustri, se non cambieranno atteggiamento politico ed imprenditoriale, tanto è vero che lo stesso rapporto sottolinea che al Sud «economia, società e amministrazione pubblica sembrano non avere la forza per uscire dalla crisi e il clima di fiducia faticosamente risalito nei mesi scorsi, è tornato purtroppo a calare, soprattutto nella sua componente economica. Si spiega anche così il basso livello di investimenti privati nonostante la liquidità non manchi ai principali gruppi bancari, dopo l’accesso al funding agevolato della BCE. Quella del Mezzogiorno, oltre che una crisi economica e sociale, sembra essere sempre più una crisi di sfiducia, in cui le imprese non investono, i giovani se ne vanno, perfino le poche risorse pubbliche per investimenti non si riescono ad utilizzare: ad un anno dalla chiusura del ciclo di programmazione 2007-13, restano infatti ancora da erogare ben 14 miliardi di euro. Cosicché, torna ad allargarsi il divario nel PIL procapite, pari a poco più del 56% di quello del Centro-Nord: in valori assoluti, pari a circa 13mila euro in meno. E’ un Mezzogiorno sfiduciato, ma ancora ricco di risorse e di imprese che hanno rinviato i loro investimenti in attesa di prospettive più chiare, e che hanno bisogno di un tessuto sociale e soprattutto istituzionale che reagisca con vigore».
Anche in Confindustria e SRM, si confida nell’ottimismo della volontà renziano: «Il recupero della fiducia appare pertanto la principale ricetta di politica economica capace di agganciare il Sud alla possibile ripresa del 2015: lo sblocco di questo stand-by può venire da uno stimolo esterno».
Lo stimolo potrebbe essere «L’esclusione delle spese di investimento, in particolare di quelle finanziate da fondi strutturali europei dal calcolo europeo del deficit, appare sempre più la chiave di volta per rimettere in moto investimenti da troppo tempo bloccati e per ridare ai bilanci pubblici spazi di manovra senza i quali nessuna fase espansiva appare ipotizzabile. Il semestre di presidenza italiano ha avuto il merito di porre il tema all’ordine del giorno, e il recente Consiglio europeo ha lasciato aperto uno spiraglio, collegandone l’eventuale implementazione all’attuazione del Piano Juncker. Queste timide aperture devono essere consolidate già nei primi mesi del 2015, per poterne trasferire i benefici effetti sul Patto di Stabilità delle Regioni, ampliando gli spazi, ancora stretti, aperti dalla Legge di Stabilità».
Se Confindustria si è accorta di uno dei pochi risultati del deludente semestre europeo ed è tra le poche a dare un giudizio positivo dell’ancor più deludente Piano Juncker, non si nasconde che «La vera sfida è costituita da una selezione attenta e mirata degli investimenti pubblici e privati, in alcune aree prioritarie dal valore strategico: dalla ricerca e sviluppo alla competitività delle imprese; dalle risorse naturali e culturali all’istruzione; dall’efficienza energetica alle infrastrutture materiali e sociali (e ai servizi che tali infrastrutture utilizzano). E’ la stessa sfida del Piano Juncker, sulla quale far convergere gli investimenti pubblici e privati, e su cui concentrare tutte le risorse della politica di coesione, vecchie e nuove. Una sfida da giocare prima di tutto al Sud».