Una tenda beduina sembra piazzata (anche) a Bruxelles
Della democrazia tribale, dalle elezioni in Libia alle trattative per la Commissione Ue
Socialdemocratici e conservatori si fanno guerra in patria e poi governano insieme a Tripoli e Bengasi, ops… scusate, a Bruxelles e Berlino
[26 Giugno 2014]
Tre anni dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi per mano della ribellione salafita e dei caccia della Nato, i cittadini della Libia hanno votato per eleggere i 200 deputati (32 seggi sono riservati alle donne) della “Camera dei rappresentanti” che sostituirà il Congresso generale nazionale – eletto solo nel 2012 – e deciderà come nominare il futuro presidente di uno Stato che sembra sempre più un puzzle tribale e di bande integraliste.
In molti, soprattutto in Libia, pensano che le nuove elezioni non avrebbero dovuto tenersi così rapidamente, con un solo mese di preavviso, in un Paese dove golpisti e indipendentisti si scontrano e occupano il Parlamento, visto che la contesa elettorale ridarà quasi sicuramente come risultato un Parlamento eletto su base tribale e clientelare, e con partiti politici debolissimi. Di fatto la democrazia che gli occidentali volevano importare in Libia non ha mai visto la luce, e anche la decisione di spostare la nuova “Camera dei rappresentanti” da Tripoli a Bengasi è di fatto un cedimento alle milizie autonomiste e integraliste che controllano l’est del Paese. Questo tipo di democrazia, comprensibilmente, non sembra interessare molto i libici: nelle liste elettorali si sono registrate solo 1,5 milioni di persone, la metà dei 2,8 milioni di elettori che si erano registrati nel 2012, nelle prime elezioni “libere” dopo più di 40 anni.
Brucia così, dopo l’entusiasmo (per dire la verità effimero) per la caduta di Gheddafi, l’esperienza di un governo screditato che ha cercato di rimanere al potere fino all’ultimo nonostante fosse dimissionario da febbraio e che continue manifestazioni a Tripoli ne chiedessero la fine, accusandolo di complicità con i ribelli dell’est e di corruzione. Alla fine è dovuta intervenire la Corte Suprema, che ha annullato l’elezione del premier Ahmed Meitig, sostenuto dai deputati islamisti, per rinominare Abdallah al-Theni, l’attuale premier di transizione.
I libici sanno bene che il vero potere è nelle mani delle milizie che controllano Parlamento e deputati, imponendo il loro volere. Anche se il generale golpista Khalifa Haftar (un ex gheddafiano accusato di essere al soldo della Cia) ha annunciato una tregua a Bengasi per permettere il voto, è difficile immaginare che si sia potuto votare liberamente nelle zone controllate dai jihadisti d’Ansar al-Charia finanziati e armati dal Qatar e dall’Arabia Saudita (ma sauditi ed egiziani ora appoggiano Haftar contro i Fratelli Musulmani) , mentre i berberi del sud-est hanno chiesto di boicottare le elezioni. In diverse aree della Cirenaica e del Fezzan i seggi elettorali non sono stati nemmeno aperti, mentre nelle zone tribali i risultati sono già scritti.
E’ evidente che gli occidentali spingono perché ci sia una nuova leadership libica che riesca a liberare i terminal petroliferi bloccati da quasi un anno dalle milizie. Ma il post-elezioni sembra poter essere ancora più caotico: gli islamisti chiedono che il nuovo presidente della Libia sia nominato dal Parlamento, mentre i loro avversari vogliono il suffragio diretto. Probabilmente alla fine decideranno i gruppi armati che controllano il Paese, e che determineranno de facto chi sarà eletto. A complicare le cose in un Parlamento che si annuncia frammentato c’è anche il fatto che la nuova legge elettorale prevede che tutte le candidature devono essere individuali: questo non solo favorisce il clientelismo tribale, ma discredita ulteriormente la politica rinunciando a creare forze nazionali non fondate su base tribale o religiosa.
A proposito di credibilità, anche nella democratica Europa, da dove decollarono molti degli aerei e salparono le navi cariche di missili dei “liberatori” della Libia, le certamente democratiche e libere elezioni europee non sembrano aver risolto il deficit lasciatoci dalla grosse koalition dominata dal Partito Popolare e presieduta dal conservatore Manuel Barroso.
Il paragone è certamente azzardato, ma la trattativa tra socialdemocratici e democristiani-conservatori sulla nuova commissione somiglia molto alle defatiganti e pericolose riunioni tribali libiche, e ognuno sembra mettere mano alla pistola (fortunatamente metaforica) per far valere le sue truppe nazionali e per reclamare un Commissario europeo di peso, magari tralasciando – come accaduto troppe volte in passato – le reali competenze di chi dovrebbe rappresentare gli europei. Invece l’organigramma della nuova Commissione Ue segnerà soprattutto l’importanza di questo o quel governo, o di questo o quel premier. Con il britannico Cameron che fa come gli indipendentisti islamisti di Bengasi e chiede di ammainare qualcuna delle troppe bandiere dell’Ue presenti alle manifestazioni ufficiali, temendo che possano disturbare le truppe nazional/xenofobe dell’United Kingdom Independence Party, l’Ukip di Niegel Farange, che si sono appena alleate con Beppe Grillo.
Insomma, siamo alla negazione dell’Europa federale e più unita sbandierata da entrambi i più grandi gruppi politici durante la campagna elettorale e probabilmente rimpiangeremo il commissario all’ambiente sloveno Janez Potočnik, che durante il suo mandato non ha sfigurato.
Se è questa la democrazia delle trattative nazional-tribali che volevamo esportare in Libia siamo arrivati tardi: Gheddafi era molto più bravo a trattare (e intimorire) con le tribù libiche, anche se ora una tenda beduina sembra piazzata a Bruxelles per formare una Commissione europea frutto di un’alleanza tra due famiglia politiche, quella socialdemocratica e quella democristiano-conservatrice, che si fanno guerra in patria e poi governano insieme a Tripoli e Bengasi, ops… scusate, a Bruxelles e Berlino.