Il mismacht tra domanda e offerta di competenze non è un rischio, ma una drammatica realtà
Formazione e politiche attive del lavoro, com’è cambiata l’Italia del Jobs act
Fonti di finanziamento e novità normative, tra enti (non tutti ancora ben definiti) e incertezze di prospettiva
[30 Giugno 2016]
Il nuovo quadro normativo e le modalità/tipologie di finanziamento. IL D.Lgs.150 del 2015, che recepisce quanto contenuto nel cosiddetto Jobs Act (dicembre 2014), prevede l’istituzione di una Rete Nazionale dei servizi per le Politiche Attive del Lavoro e individua i soggetti che ne faranno parte: le strutture regionali per le Politiche attive del lavoro, l’Inps, l’Inail, le Agenzie per il lavoro e gli altri soggetti autorizzati all’attività di intermediazione, i Fondi bilaterali, l’Isfol e Italia Lavoro, il sistema delle Camere di commercio,Industria, Artigianato Agricoltura, le Università e gli Istituti di scuola secondaria di secondo grado (e forse, ne manca qualcuno!?!). L’obiettivo è quello di assicurare ai datori di lavoro il soddisfacimento dei fabbisogni di competenze, e, ai lavoratori, il sostegno nell’inserimento o nel reinserimento al lavoro. In Italia il mismacht tra domanda e offerta di competenze è, non tanto un rischio, ma una drammatica realtà, che si mantiene anche nella prospettiva di nuove assunzioni, che si concentreranno, pare, su figure con bassi livelli di qualificazione; il sistema di istruzione inoltre appare debole in relazione alla necessità di garantire specifiche specializzazioni entro il diploma e in percorsi brevi successivi a questo, mentre il sistema delle imprese persiste – anche se con qualche lieve miglioramento – nel dedicare poche risorse all’investimento formativo.
Il ministero del Lavoro, sulla base di un’intesa con le regioni (Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome) avrà il ruolo di indirizzo politico della Rete dei servizi, e fisserà, con decreto, linee di indirizzo triennali e obiettivi annuali in materia di politiche attive, mentre spetterà all’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (Anpal) di nuova istituzione, il ruolo di coordinamento. Il primo problema che si pone – anzi il secondo, perché alcuni dei soggetti previsti all’art.1 del D.lgs ancora non decollano e tutta la materia, in qualche modo, ricade e si ricollega agli esiti del referendum costituzionale, riguarda le risorse. A partire dal 2009 infatti, provvedimenti in deroga (vedi trasferimento delle quote variabili dei Fondi interprofessionali ) e gli effetti della legge di Stabilità ( legge.190 del 2014) hanno contribuito a alleggerire i contributi destinati ad interventi di formazione continua. Questo, sotto certi aspetti, è in contrasto con quanto previsto dalla legge Fornero del 2012 che, prevedendo l’estensione della indennità di disoccupazione a nuove categorie di dipendenti (p.e. apprendisti o i “tempo determinato” nelle amministrazioni pubbliche ecc), ha allargato le quote di soggetti destinatari di formazione continua. Di fatto passeranno all’Anpal i finanziamenti programmati e gestiti dalle regioni ( legge 236 del 1993), mentre i Fondi interprofessionali resterebbero il solo strumento della formazione continua a livello nazionale. L’Anpal avrà accesso al Fondo sociale europeo e riceverà le quote dello 0,30% dei datori di lavoro che non aderiscono a Fondi interprofessionali (per trasferimento dal ministero del Lavoro). In estrema sintesi, ricordando che la legge 845 del 1978 rimane oggigiorno l’unica legge organica sulla formazione professionale, il quadro che si configura è quello di una normativa molto complessa e poco comprensibile per i non addetti ai lavori, che vede una persistente e progressiva diminuzione delle risorse finanziarie, sia di quelle provenienti dai Fondi interprofessionali, sia di quelle delle risorse Regionali.
Un’auspicabile previsione, forse un po’ ottimistica, indica nuove modalità di integrazione di risorse e di gestione che, se non stiamo parlando del mondo dei sogni, dovranno permettere di raggiungere tutti i target di lavoratori interessati. Positivo, ma molto ipotetico, ad esempio, nell’ambito del rafforzamento dei meccanismi di prestazioni di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, il “concorso eventuale” dei Fondi interprofessionali alla stipula del patto di servizio personalizzato, a carico dei centri per l’impiego, allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa ed in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio (la citazione è quasi testuale, vista la delicatezza della materia)
Un decennio di attività dei Fondi interprofessionali. I Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua (legge 338 /2000) sono promossi dalle parti sociali attraverso specifici accordi interconfederali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Le imprese possono destinare la quota dello 0,30% dei contributi versati all’Inps(il cosiddetto “contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria”) ad uno dei Fondi paritetici interprofessionali. Questi Fondi finanziano piani formativi aziendali, settoriali e territoriali, che le imprese, in forma singola o associata, decideranno di realizzare per i propri dipendenti. Inoltre ( legge 148/2011) possono finanziare anche piani formativi individuali, nonché ulteriori attività propedeutiche o comunque connesse alle iniziative formative e, dal 2011, anche quelle rivolte a lavoratori con contratti di apprendistato e a progetto ecc. Dal 2004 al 2014 i fondi hanno gestito annualmente 450milioni annui, il valore medio contributivo per lavoratore oscilla tra fondi più forti (contratti dirigenti, settori bancari) e quelli che vedono un’alta presenza di lavoratori stagionali o discontinui (edilizia, turismo, agricoltura); i temi maggiormente presenti nei piani, se si guarda alla finalità, sono: mantenimento/aggiornamento di competenze, competitività di impresa e innovazione, formazione obbligatoria; negli anni è stato difficile, soprattutto per le micro imprese, ma non solo, di usufruire di risorse per formazione in funzione anticiclica, mentre la formazione obbligatoria è stata prevalente (formazione per legge su salute e sicurezza in primis). Le metodologie formative tradizionali (aula) sono prevalenti, anche se compare un 8% di training on the job e un 5% di formazione a distanza. Punti deboli, anzi debolissimi sono gli aspetti ex ante ed ex post: l’1,8% prevede un preventivo bilancio di competenze e un 1% l’ orientamento. Manca per più della metà una certificazione di attestazione del percorso stesso.
Per quanto riguarda le tipologie di lavoratori coinvolti, dal 2008 al 2015 aumentano i contratti di inserimento lavorativo (dal 2,7% al 6%), gli apprendisti (dallo 0,7% al 2,5%, i contratti a tempo determinato (dal 6,2 al 25,2%), mentre calano i contratti a tempo indeterminato (da 79,5% a 65, 2%, crollo causato dalle nuove normative, ma spia dei settori maggiormente colpiti dalla crisi). In genere le imprese preferiscono investire sulle classi di età centrali, i meno vecchi, privilegiano i ruoli apicali quadri, dirigenti, impiegati direttivi, rispetto agli operai generici. Il 96,5% dei partecipanti è italiano e, rispetto al 2008, diminuiscono le donne; nei piani sono coinvolte le imprese con più di 500 dipendenti (41,6%), ma le piccole (da 10 a 49 dipendenti) sommate alle micro imprese raggiungono ormai il 36,8%.
La formazione sostenuta dalle regioni. Nel 2014 e ancora nel 2015 il ministero del Lavoro non ha formulato il decreto (legge 236 del 1993) di riparto delle risorse da trasferire alle regioni, quindi si va avanti per forza di inerzia sulla base dei finanziamenti degli anni precedenti. Dal 2006, data a partire dalla quale è stato fatta una indagine, si sono accumulati fondi inutilizzati in alcune regioni e, in genere, le regioni hanno preferito finalizzare risorse a sostegno al reddito, visto il perdurare della crisi, piuttosto che sostenere programmi di formazione continua (vedi i casi di Sicilia, ma anche Veneto, Liguria, Lazio ecc). Per quanto riguarda i contributi relativi alla legge 53 del 2000, questi sono stati recuperati per sostenere progetti presentati dalle imprese o dal singolo lavoratore, sostenendo, attraverso i voucher individuali, le iniziative del singolo lavoratore.
Per quanto riguarda l’utilizzo del Fondo sociale europeo (miglioramento dell’adattabilità dei lavoratori e azioni volte a rendere più flessibile il mercato del lavoro), i POR – Programmi operativi regionali nel 2014 hanno concentrato la formazione continua sull’adattabilità (90% dei progetti) nelle regioni Cro (Competitività regionale e occupazione) e solo l’88,6% nelle regioni dell’obiettivo convergenza (CONV).