Fracking in Italia, la Camera (per ora) dice no. Ma intanto in Cina e Bielorussia…

[20 Ottobre 2014]

E’ stato approvato l’emendamento allo “Sblocca Italia”, presentato in commissione ambiente della Camera, che chiede la modifica dell’articolo 144 del decreto legislativo n.156 del 3 aprile 2006 – richiamata dall’inserimento del comma 11-bis dell’articolo 38 – riguardante il divieto di “ricerca e estrazione di shale gas e shale oil e il rilascio dei relativi titoli minerari. L’emendamento dice testuale che «Nelle attività di ricerca o coltivazione di idrocarburi rilasciate dallo Stato è vietata la ricerca e l’estrazione di shale gas e shale oil e il rilascio dei relativi titoli minerari. A tal fine è vietata qualunque tecnica di iniezione in pressione nel sottosuolo di fluidi liquidi o gassosi, compresi eventuali additivi, finalizzata a produrre o favorire la fratturazione delle formazioni rocciose in cui sono intrappolati lo shale gas e lo shale oil». Tutto questo «ai fini della tutela delle acque sotterranee dall’inquinamento e per promuovere un razionale utilizzo del patrimonio idrico nazionale, tenuto anche conto del principio di precauzione per quanto attiene il rischio sismico e la prevenzione di incidenti rilevanti».

Si tratta quindi di uno stop a chi nella maggioranza puntava ad aprire la strada al fracking anche in Italia e l’emendamento approvato stabilisce anche che «I titolari dei permessi di ricerca o di concessioni di coltivazione comunicano entro il 31 dicembre 2014 al ministero dello Sviluppo Economico, al ministero dell’Ambiente, all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, i dati e le informazioni relative all’utilizzo pregresso di tali tecniche per lo shale gas e shale oil, anche in via sperimentale, comprese quelle sugli additivi utilizzati precisandone la composizione chimica. Le violazioni accertate delle prescrizioni previste dal presente articolo determinano l’automatica decadenza dal relativo titolo concessorio o dal permesso».

Già a luglio i parlamentari del PD  Alfredo Bazoli e Miriam Cominelli avevano presentato un’interrogazione urgente ai ministri allo Sviluppo economico e all’Ambiente contro il possibile uso, sul territorio italiano e nella bassa bresciana, della tecnica del fracking.  I due parlamentari democratici ricordavano che «Al bando in Francia e in Bulgaria, il fracking sfrutta la pressione dei liquidi per provocare delle fratture negli strati rocciosi più profondi e agevolare la fuoriuscita dei gas. Tale procedura è altamente inquinante poiché gli agenti chimici e liquidi inquinanti utilizzati per spaccare, impermeabilizzare e tenere aperte le rocce hanno come risultato diretto sull’ambiente la contaminazione dei terreni e delle falde acquifere». Quindi chiedevano di sapere: «se i Ministri possano escludere eventuali futuri progetti di fracking sul territorio italiano».

Ma i giochi potrebbero non essere ancora fatti: la Rete Nazionale NO Fracking Italy ricorda che il 10 ottobre «La Commissione bilancio della Camera aveva espresso parere negativo al divieto per l’uso della fratturazione idraulica inserito dalla stessa Commissione ambiente nel Collegato ambientale alla legge di Stabilità 2014, adducendo come motivazione l’impossibilità ad “escludere effetti finanziari negativi derivanti (da questo divieto, ndr) dalla prevista automatica decadenza dalle concessioni e dai permessi in essere”»

Ma se il più grande Partito italiano ed il pilastro della maggioranza di governo ha preferito non infilarsi nella pericolosa avventura del fracking che prometteva infiniti conflitti sociali ed ambientali,  dall’altra parte del mondo, in quello che sembra uno dei prossimi alleati/compratori dell’Italia che vuole uscire dalla crisi, le cose vanno in tutt’altra maniera. La Cina ha annunciato che la sua produzione di gas da scisto nel 2015 raggiungerà i 6,5 miliardi di m3, «un aumento considerevole in rapporto alla produzione stimata tra 1 miliardo ed 1,5 miliardi di m3 quest’anno – ha detto Zhang Yuqing,  direttore aggiunto dell’amministrazione nazionale dell’energia  – La produzione di gas da scisto ha conosciuto uno sviluppo rapido negli ultimi anni, dopo che il Paese ha cominciato ad esplorare ed a sfruttare questa energia nel  2009».   Zhang e il governo cinese, che il 17 ottobre hanno organizzato un meeting sullo shale gas a Pechino, non si pongono certo il problema del frackin in un Paese noto per la sua altissima pericolosità sismica, per l’inquinamento delle falde idriche e per frequenti  casi di subsidenza.  Al contrario, Zhang ha evidenziato che «Il forte aumento della produzione di gas da scisto è accompagnato da una domanda crescente di gas naturale in Cina. Secondo le statistiche ufficiali, la produzione di gas naturale nel 2013 è aumentata del 9,5%, a 117,1 miliardi di m3. Però la produzione resta inferiore alla domanda crescente. Il consumo totale in gas naturale si è stabilizzato a 167,5 miliardi di m3, in crescita del 10% in un anno. Il gas di scisto è un’importante fonte non convenzionale di gas naturale. Attualmente le riserve esplorate del Paese raggiungono I 130 miliardi di m3».

La cosa comincia sicuramente a preoccupare la Russia che punta molto sul mercato del gas “tradizionale” in Cina e che ha firmato colossali contratti con Pechino che permetterebbero a Mosca di avere un enorme mercato alternativo all’Europa. Ma il Cremlino ora deve preoccuparsi anche per quello che sta succedendo nella fedelissima Bielorussia, partner di ferro nell’unione doganale eurasiatica, e che dipende per la sua energia quasi totalmente dal gas e dal petrolio russi.

Infatti il regime di Minsk ha annunciato di aver estratto per la prima volta petrolio di scisto. La compagnia statale Belorusneft  ha detto che il fracking e le trivellazione orizzontale hanno permesso di attingere alle  risorse non convenzionali del sottosuolo bielorusso e di estrarre shale oil nel giacimento di Rechitski, che si era esaurito. Belorusneft in un comunicato stampa dice di a aver ottenuto «una portata di 20 tonnellate al giorno per un totale delle riserve stimato in 700.000 tonnellate». La Bielorussia, produce più di 30.000 barili al giorno di petrolio, cioè tra gli 1,6 e gli 1,8 milioni di tonnellate l’anno – nel 1975 erano quasi  milioni nel 1975 – e ne consuma 6 volte di più.

La Bielorussa entra così nella corsa di alcuni Paesi dell’Europa occidentale allo shale gas ed allo shale oil  che punta a ridurre la dipendenza energetica da Mosca, speranze che sono andate spesso deluse nonostante gli investimento anche di multinazionali straniere, come in Polonia.

Chi sogna un boom di tipo americano per lo shale gas probabilmente ha fatto male i conti: le riserve dell’Europa orientale ex sovietica sembrano meno accessibili ed abbondanti di quelle americane e il fracking rischia di fare ancora più danni con meno ritorno economico.

Sul settimanale “I Bielorussi e il mercato” Tatiana Manenok, un’esperta di energia, invita alla prudenza: «Per il momento e’ difficile giungere a conclusioni sull’efficacia economica della produzione di shale oil in Bielorussia. E’ evidente che se anche il giacimento fosse fruttuoso, la dipendenza dalla Russia resterebbe», quindi non si sa se a Minsk, che ha un regime doganale privilegiato sull’import di greggio e gas russi convenga puntare su tecniche costose, impattanti e che prosciugheranno riserve non convenzionali di giacimenti convenzionali già esauriti. L’unico vantaggio che potrebbe venire davvero alla Bielorussia dal petrolio estratto con il fracking è che non dovrebbe più versare a Mosca una parte dei proventi della raffinazione del greggio.

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