A greenreport.it uno dei più noti economisti ecologici al mondo

Italiani, l’economia ecologica è amore per la dolce vita. Parola di Robert Costanza

«Il benessere delle persone non dipende solo dal loro reddito. Dobbiamo mostrare un’altra visione, offrire qualcos’altro in cambio»

[31 Ottobre 2013]

Robert Costanza insegna Politiche pubbliche alla Crawford School of Public Policy, dell’Australian National University. È oggi uno dei più celebri economisti ecologici nel panorama internazionale. Parteciperà il 6 novembre al X Forum internazionale di Greenaccord: il suo intervento potrà essere seguito in streaming nel sito dell’associazione

Robert Costanza, nel suo ultimo studio pubblicato su Ecological Economics si afferma che «mentre il prodotto interno lordo (Pil) mondiale è più che triplicato dal 1950, il benessere economico, così come stimato dal Genuine Progress Indicator (Gpi), è in realtà diminuito dal 1978». Ritiene che l’orologio del progresso si sia fermato? 

«Ciò significa che dal 1978 non stiamo compiendo “veri e propri” progressi a livello globale, benché alcuni Paesi si stiano comportando meglio di altri. Il PIL non è mai stato concepito come un’unità di misura del progresso – esso infatti quantifica solo l’attività economica – che può includere fattori di cui non sentiamo necessariamente il bisogno in quantità maggiore, come ad esempio criminalità, inquinamento e disgregazione delle famiglie. Sfortunatamente, abbiamo dimenticato il fatto che il PIL è un valore molto limitato e noi lo utilizziamo erroneamente per calcolare il progresso in generale. Il GPI rimodella il PIL prendendo in considerazione distribuzione del reddito, aggiungendo il valore della famiglia e del volontariato e sottraendo i costi ambientali e sociali. A questo punto notiamo come dal 1978 non vi sia sostanzialmente alcun guadagno netto o un vero e proprio progresso globale. Occorre sottolineare che il GPI non è un perfetto indicatore di benessere economico o di concetti più ampi legati al benessere sostenibile dell’umanità. C’è ancora molto lavoro da fare in questo settore. Tuttavia, tali modifiche sono ragionevoli e i risultati sono convincenti. Si ottiene ciò che si misura, e noi stiamo perseguendo l’obiettivo sbagliato cercando di massimizzare il PIL. Dobbiamo spostarci rapidamente verso margini più ampi di progresso se vogliamo raggiungere un benessere sostenibile e tornare sulla strada di un autentico progresso».

Nell’articolo si sottolinea inoltre che «il Gpi/pro capite ha raggiunto il picco nel 1978, ovvero circa nello stesso periodo in cui l’impronta ecologica globale ha superato la biocapacità globale». È possibile inferire qualcosa da questa simultaneità? 

«Probabilmente si tratta solamente di una coincidenza, tuttavia da quando il GPI sottrae i costi ambientali che crescono costantemente di pari passi con l’impronta ecologica, non ci sorprende che entrambi i valori abbiano evidenziato questa tendenza. Essi infatti indicano il 1978 come il punto a partire dal quale i costi generali hanno cominciato a superare i benefici e noi abbiamo iniziato a sfruttare intensivamente il nostro capitale naturale, piuttosto che vivere di interessi. Ci troviamo in un periodo che Herman Daly ha definito come “crescita antieconomica” – in cui l’economia è in crescita, ma non si tratta più di una crescita “economica”, dal momento che non stiamo compiendo progressi reali».

Una delle osservazioni più interessanti prodotte dallo studio è che «globalmente, il Gpi/procapite (e dunque una stima del benessere, ndr) non aumenta oltre un Pil/procapite di circa 7mila dollari l’anno», un livello economico che potrebbe essere già ampiamente raggiunto con un’equa distribuzione del Pil globale. Ma un italiano come potrebbe essere felice con un equivalente di circa 425€ al mese?

«Il punto non è che tutti dovrebbero avere esattamente lo stesso reddito, ma che il reddito potrebbe essere distribuito in un modo molto più equo rispetto al presente e tutto ciò sarebbe non solo sostenibile, ma anche più desiderabile dal punto di vista della qualità della vita e del benessere. Lo studio di Richard Wilkinson e Kate Pickett pubblicato su “The Spirit Level” ha dimostrato una forte correlazione tra le disparità di reddito e numerosi problemi di natura sociali. I Paesi scandinavi e il Giappone fanno registrare la disparità di reddito più bassa, minori problemi sociali e la più alta qualità della vita. Non abbiamo più bisogno della crescita del PIL per migliorare il benessere in molti Paesi – potremmo stare meglio con meno ricchezza purché distribuita più equamente, nonché con un minore impatto sull’ambiente. Altri paesi invece hanno bisogno di crescita, ma di natura diversa, ossia una crescita che si concentri su equità, investimento nel capitale naturale e benessere. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma di sviluppo e perciò abbiamo costituito un’Alleanza globale per la Sostenibilità e la Prosperità (ASAP) per riunire e sostenere tutti i vari gruppi di lavoro che tendono a questo obiettivo (www.asap4all.org)».

La crisi economica ha acuito il problema della povertà nei paesi occidentali, con acquisti di beni e servizi già in calo. Come pensa reagirebbero i cittadini di fronte a una proposta politica che comporti la riduzione delle loro entrate economiche? 

«Molte nuove ricerche nell’ambito della “scienza della felicità”, “psicologia positiva” ed “economia comportamentale” mostrano come la percezione di benessere delle persone non sia così dipendente dal proprio reddito economico, una volta superato la soglia della sufficienza. Inoltre, il benessere è determinato non tanto dai consumi assoluti, quanto dai consumi rispetto ai propri pari, oltre a una vasta gamma di fattori non strettamente legati al consumo, tra cui interazioni con la famiglia, gli amici e la comunità (capitale sociale), sicurezza, partecipazione al processo decisionale, tempo libero, affetto, realizzazione, ecc. Una diminuzione del reddito senza altri cambiamenti sarebbe sicuramente essere interpretata come una perdita e perciò ostacolata. Diversamente, una riduzione del reddito associata a un forte aumento di benessere derivante da altre fonti sarebbe accettabile, e persino auspicabile, nel caso in cui questi cambiamenti siano collegati e articolati in modo evidente. Gli italiani sono rinomati per l’amore che nutrono per “la dolce vita”, perciò riescono a comprendere i compromessi derivanti da ritmi serrati di lavoro finalizzati ad aumentare il proprio reddito a discapito delle altre cose belle della vita. Dobbiamo sfruttare ciò che stiamo imparando sulla psicologia de la dolce vita per ideare un mondo migliore e facilitarne la realizzazione».

Nonostante tutto, virare il modello socioeconomico mondiale verso un obiettivo di stato stazionario sembra infatti ancora l’unica prospettiva sensata verso un futuro sostenibile di benessere. Mantiene ancora la speranza di vedere l’umanità avvicinarvisi? 

«Io sono ottimista, ma dobbiamo riconoscere che ci troviamo letteralmente “dipendenti” dall’attuale modello socio-economico. Non stupisce quindi che la transizione verso un’economia e una società sostenibile e desiderabile sarà lenta e difficile. Proprio come quando si rompe una dipendenza individuale, saranno necessari una terapia adeguata e un forte desiderio di cambiare. Come prima cosa, noi possiamo instillare quel desiderio mostrando come il nostro percorso attuale non sia sostenibile, ma soprattutto sottolineando l’esistenza di soluzioni migliori. Dobbiamo creare una visione condivisa di un sistema economia-società-natura sostenibile e desiderabile. Molti gruppi e individui in tutto il mondo stanno lavorando a questo progetto (vedi il citato www.asap4all.org), e confido che riusciremo a raggiungere un punto di non ritorno, rompendo così la nostra dipendenza prima che sia troppo tardi».

Crede quindi che i progressi compiuti negli ultimi anni dall’economia comportamentale possano essere un valido sostegno per realizzare un percorso sociale che porti ad un’economia di stato stazionario? 

«Sì, insieme ai progressi nel campo della psicologia positiva e delle altre discipline citate in precedenza. Questa ricerca conferma che le persone non si comportano come individui avari, atomistici e competitivi, così come ipotizzato dal modello economico tradizionale. Essa mette in luce piuttosto la complessità del comportamento umano, sottolineando come la specie umana sia intrinsecamente sociale e cooperativa. Le persone reali sono generalmente più felici quando danno qualcosa agli altri e si aiutano a vicenda rispetto a quando ricevono. La ricerca inoltre indica che i cambiamenti di cui abbiamo bisogno per realizzare un futuro sostenibile e desiderabile non rappresentano un sacrificio e non sono contrari alla “natura umana”. Il sacrificio vero consiste nel rifiuto di questi cambiamenti, ancor più considerando che il futuro sostenibile e desiderabile che stiamo descrivendo è molto più compatibile con la natura umana rispetto al modello attuale».

Traduzione a cura di Valentina Legnani, Valentina Legnani Traduzioni