L'esperta di educazione Vittoria Gallina continua il dibattito sul lavoro del nostro think tank
Jobs Act: quale scuola per quale lavoro
C’è la crisi , è vero, ma dobbiamo fare uno sforzo per un serio cambiamento del sistema formativo
[16 Gennaio 2014]
Nei prossimi giorni sarà disponibile il testo completo, si spera, di indicazioni puntuali, relativo al Jobs Act da cui sarà quindi possibile avviare una riflessione capace di individuare gli ambiti all’interno dei quali agirà questo insieme di provvedimenti. Se l’uso delle parole ha un senso e non si limita a inseguire la moda degli anglicismi, vorrei prima di tutto ricordare che law e act in inglese non sono sinonimi; un giurista potrà sicuramente essere più preciso, qui credo basti dire che law indica regole e linee guida per indirizzare i comportamenti, mentre l’act è il fondamento da cui scaturiscono le leggi.
Se è vero che poi nell’uso i due termini diventano quasi sinonimi, mi piace ricordare che dal Cilvil Rights Act del 1964 sono scaturite una miriade di leggi che hanno cambiato molti e significativi aspetti della società degli Stati Uniti. Non mi azzardo a dire che Act è più vicino a Costituzione che a legge, ma, per restare in tema, se in Italia parliamo di legge n. 300 del 1970 capiscono solo gli addetti ai lavori, mentre se parliamo di Statuto dei lavoratori siamo sicuri di essere seguiti dall’attenzione che il testo merita.
Per questa ragione appare utile domandare a chi propone il Jobs Act se intende presentare una legge che sistema, aggiungendosi alle leggi attuali, oppure se – a distanza di più di 40 anni – propone un nuovo Statuto. Porre la questione in questi termini significa porre alla politica temi che riguardano la responsabilità di rispondere, da un lato a un mondo del lavoro che è cambiato per la dimensione, la quantità e la qualità degli orizzonti di riferimento e, dall’altro, di affrontare questioni poste dalla stessa Costituzione italiana e, soprattutto, di costruire opportunità di accesso e di sviluppo del lavoro in un paese che ha ormai raggiunto il 40% di disoccupazione giovanile e ha aperto una spaventosa voragine di fronte a chi, prima dell’età del pensionamento, deve essere ricollocato al lavoro.
Il nesso tra sistema formativo e sistema del lavoro appare quindi cruciale in questa fase. Non può essere risolto e guidato da una politica gridata, che fa contemporaneamente retorica sulla scuola e sulla lontananza delle competenze dei giovani richieste dal mercato del lavoro attuale, riducendo spesso il problema alla questione di tagli più o meno drastici di risorse.
Il rapporto Mc Kinsey («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione»), presentato a Bruxelles nei giorni scorsi, evidenzia la situazione italiana come la peggiore rispetto agli otto paesi oggetto di monitoraggio. Il 47% degli imprenditori italiani dicono di non riuscire a trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta. Non è che le cose stiano meglio in Grecia (45%) o in Spagna (33%) o in Germania (26%), ma il record italiano è un fatto molto negativo. Gli imprenditori dicono che non trovano lavoratori adatti e che gli aspiranti a un lavoro ignorano “come e dove farsi cercare”. C’è la crisi , è vero, c’è lo spread, va bene, anzi va male, ma qui si tratta di fare uno sforzo per imporre, non a chiacchiere, un cambiamento serio del sistema formativo.
Una prima domanda: per quanto tempo sarà possibile mantenere una scuola che svalorizza i filoni formativi più vicini al lavoro (tecnici e professionali), selezionando verso questi indirizzi gli alunni più deboli? E come corollario a questo quesito: in che modo si pensa di intervenire sull’insieme della scuola dell’obbligo (i famosi 10 anni obbligatori) se non si ripensano come percorso orientante verso scelte tese a valorizzare le aspirazioni allo studio, al lavoro e ad una socialità responsabile di ciascuno studente, e non come momento di consolidamento di opzioni legate ai risultati buoni o meno buoni del triennio della scuola media? Seconda domanda: siamo proprio sicuri che percorsi terziari non accademici, come sedi qualificate di alta specializzazione tecnico scientifica, siano inutili al nostro sistema produttivo? Terza domanda: l’Italia saprà dotarsi di strutture capaci di valutare tutto quello di buono, meno buono e decisamente pessimo che si nasconde dietro la formula di “politiche attive del lavoro”, per eliminare sprechi e malversazioni e mettere a disposizione servizi utili? Le devastazioni prodotte dalla ricerca e dall’utilizzo del lavoratore adatto Just in time dovrebbero insegnarci che le pezze non servono ma anzi dequalificano il lavoro, i lavoratori e l’insieme della società.