L’antifemminismo nell’era dei social

Con la sua ricerca, Léa Clermont-Dion spera di aiutare a stabilire relazioni online più rispettose

[14 Gennaio 2022]

Le donne che difendono l’uguaglianza di genere o che prendono posizione su varie questioni sui social network sono spesso oggetto di insulti sessisti o commenti inappropriati. E’ per comprendere meglio le dinamiche del discorso antifemminista che Léa Clermont-Dion, autrice e regista di documentari, ha completato un dottorato in scienze politiche presso la Facoltà di scienze sociali dell’Université Laval in Quebec e la sua tesi, discussa a dicembre, le ha permesso di classificare questo tipo di messaggi e di analizzarli attraverso il prisma della violenza contro le donne.

Oltre a condurre interviste a esperte della questione femminista su Internet, tra le quali la statunitense Donna Zuckerberg (sorella di un certo Mark Zuckerberg), la ricercatrice ha analizzato i commenti lasciati sotto i post Facebook di tre personaggi pubblici: la politica indipendentista ed ecosocialista Manon Massé di Québec solidaire, la giornalista femminista Judith Lussier e l’attivista Dalila Awada della Fondation Parole de femmes. In tutto la Clermont-Dion ha esaminato  3.000 messaggi scritti tra il 2014 e il 2018, rendendisi conto che gli utenti di Internet utilizzano tecniche più o meno ricorrenti per attaccare le femministe: «Alcuni discorsi utilizzano tecniche di dequalificazione diretta, come insulti sessisti e sessualizzanti, attacchi all’integrità fisica, insulti animalizzanti o accuse di follia. Troviamo anche paternalismo, banalizzazione, caricatura, accuse di radicalismo. Tutta questa retorica del linguaggio è unita dall’idea di invalidare il discorso femminista nello spazio pubblico».

La ricerca, finanziata dal programma di borse di studio Canada Vanier, ha anche scoperto che i commenti antifemministi pubblicati sui social network in Quebec sono fortemente influenzati dai contenuti condivisi negli Stati Uniti: «Il discorso antifemminista del Quebec ha risonanza con le argomentazioni rese popolari dalla manosphere americana (un insieme di comunità online in cui gli uomini si riuniscono per condividere il loro odio per le donne). Ad esempio, le femministe sono spesso accusate di misandria. Questo termine, utilizzato dagli anni ’90 negli Stati Uniti, sta emergendo sempre di più anche qui. Vediamo che i social network promuovono un’internazionalizzazione del discorso», ma la .

Naturalmente, i social network non hanno il monopolio del sessismo e della misoginia ma la Clermont-Dion fa notare che «Tuttavia, con i loro meccanismi di diffusione che rendono popolari alcuni contenuti, hanno portato l’antifemminismo a un altro livello, poiché la violenza e le minacce contro le donne sono diventate all’ordine del giorno. Prima, i discorsi antifemministi erano contro-discorsi illeciti, persino eretici, nello spazio pubblico tradizionale. Ora sono legittimati e spesso si trasformano in contenuti virali, inclusi discorsi violenti. Non esiste più una scala morale che dica cosa è accettabile o no».

Oltre a lavorare per 5 anni alla sua tesi, la Clermont-Dion ha co-diretto Backlash: Online Misogyny in the Digital Age, un documentario sul tema della cyberviolenza, legato al suo lavoro di ricerca, che sarà proiettato nelle sale, su Radio-Canada e Documentary Channel e in diversi istituti scolastici. Inoltre, c’è un seminario di sensibilizzazione che sarà tenuto nelle scuole del Quebec e tutto questo fa parte della campagna “Stop cyberviolences”, creata in collaborazione con la Clinique Juripop con il finanziamento del Secrétariat à la condition féminine.

Impegnata in questi progetti, Léa Clermont-Dion non abbandona la sua carriera accademica: ha una borsa di studio post-dottorato presso la Concordia University nel team del professor Vivek Venkatesh e spiega: «Stiamo lavorando sul tema della prevenzione della radicalizzazione. Piuttosto che accusare o ostracizzare i soggetti che si esprimono  così online, l’idea è di educarli in modo che comprendano il significato delle loro parole».

In altre parole, bisogna affrontare il problema alla fonte. Una battaglia culturale che sembra lunga e difficile ma per la quale vale la pena combattere.