Radiografia del mondo arabo. «Qui non ci sono stati democratici, solo autocratici»
[12 Settembre 2014]
Questo saggio risulta da una sintesi che lo stesso Samir Amin, direttore del Third World Forum in Dakar ha tratto per noi da un suo lavoro molto più ampio (Il mondo arabo: stato dei luoghi, stato delle lotte) che è in corso di pubblicazione in lingua araba e prossimamente verrà tradotto in inglese e in francese. [“The Liberal Virus”, “The World We Wish to See”, “The Law of Worldwide Value” e di recente, “The Implosion of Contemporary Capitalism”]. Il risultato del lavoro di sintesi è tuttavia molto più ampio rispetto alle consuetudini di un quotidiano, e perciò lo pubblicheremo a puntate, in collaborazione con La Sinistra Rivista.
Indagare sulla società che chiamiamo ‘civile’, sui movimenti sociali e sulle lotte che queste organizzazioni conducono nel mondo arabo, significa indagare sull’assenza della società civile e sulla mancanza di movimenti sociali all’altezza delle sfide alle quali i popoli della regione devono fra fronte.
Spesso ripetuta, questa cinica affermazione contiene una parte di verità. Ma è un’affermazione ingiusta per lo squilibrio cui si ispira sia nell’analisi delle realtà concrete sia nella valutazione delle prospettive future. Le società del mondo arabo stanno attraversando – come tutte le altre – una difficile transizione storica e la fine del tunnel non sembra ancora arrivata. Ma sono impegnate in lotte multiformi, che possono essere comprese nella loro realtà e nella loro portata solo facendo riferimento alla critica della globalizzazione liberale da cui sono sfidate, indipendentemente dal loro livello di consapevolezza e dalla natura delle forme della loro legittimazione.
Quello che ci proponiamo di fare in questo bilancio sintetico sarà proprio quello di identificare le questioni poste dai movimenti e dalle lotte, di analizzarne le ambiguità e i limiti, di misurarne la portata e, a partire dalle contraddizioni del sistema, di identificare i progressi in senso popolare e democratico che queste lotte potrebbero permettere. Si tratta di un bilancio sintetico che si basa sui numerosi lavori e dibattiti che si sono sviluppati, soprattutto sulle reti del ‘Forum du Tiers Monde’, nel corso degli ultimi anni.
Lo Stato autocratico di fronte alla sfida della modernità
Nel mondo arabo non esiste uno Stato democratico. Ci sono solo Stati autocratici. Un giudizio probabilmente duro, ma in gran parte corretto.
Anche se questa autocrazia prende forme diverse, non è difficile identificare in ognuna un carattere comune. La sorte dei popoli arabi dipende, o è dipesa, dagli stati d’animo di un generale assassino, o di un poliziotto subalterno specializzato nella tortura, o di un monarca costruttore di prigioni in cui non entra mai la luce, di un capo di una piramide tribale o di un religioso fanatico. In altri casi invece lo Stato arabo è stato diretto da un despota illuminato o da un erede mite, più o meno tollerante.
Anche se autocratici, i regimi politici arabi non sono sempre stati, o non sono, illegittimi agli occhi della loro società. Hashem Sharaby parla di poteri statuali come poteri personali, in contrapposizione al potere della legge che definisce lo Stato moderno. Un’analisi descrittiva, alla Weber, che deve essere relativizzata, in quanto questi poteri personali (personalizzati) sono legittimi solo se si proclamano rispettosi della tradizione (e in particolare della sharia1religiosa) e se sono considerati tali. Più profonda è invece la relazione che Sharaby stabilisce tra l’autocrazia e il carattere ‘patriarcale’ del sistema di valori sociali, attribuendo al concetto di patriarcato un significato molto più ampio di quello che in genere si dà al termine volgarizzato di ‘maschilismo’ (affermazione e pratica di emarginazione delle donne nella società). Il patriarcato è un sistema che mette in valore a tutti i livelli il dovere dell’obbedienza: educazione scolastica e familiare che soffoca sul nascere qualunque velleità critica; sacralizzazione della gerarchia nella famiglia (con la subordinazione delle donne e dei bambini), nell’impresa (con la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro), nell’amministrazione (con la sottomissione assoluta al capo gerarchico); divieto assoluto di libera interpretazione religiosa, e così via.
Questa constatazione – che mi sembra indiscutibile – va messa in riferimento con la definizione della modernità. Quest’ultima è basata sul principio che gli uomini, individualmente e collettivamente, fanno la loro storia e che per farla hanno diritto di innovare, di non rispettare la tradizione. Proclamare questo principio significa operare una rottura con il principio fondamentale che disciplina tutte le società premoderne, comprese quella dell’Europa feudale e cristiana. La modernità è nata con questa affermazione. Non si tratta di una ‘rinascita’, ma di una nascita vera e propria. La definizione di Rinascimento che gli europei stessi hanno dato a questo periodo della loro storia è ingannevole, in quanto è il prodotto di una costruzione ideologica secondo la quale l’antichità greco-romana avrebbe conosciuto il principio della modernità, rimasto sepolto durante il ‘Medioevo’ (tra la modernità antica e la nuova modernità) per colpa dell’oscurantismo religioso. Si tratta però di una concezione mitica dell’antichità, che sta alla base dell’eurocentrismo attraverso il quale l’Europa pretende di ereditare dal suo passato, ‘di ritornare alle fonti’ (da ciò deriverebbe il termine ‘Ri-nascimento’), mentre in realtà opera una rottura con la sua storia.
Il Rinascimento europeo è il prodotto di una dinamica sociale interna, la soluzione data alle contraddizioni specifiche dell’Europa di quei secoli con la creazione del capitalismo. Al contrario, quello che gli arabi hanno chiamato, per imitazione, la loro ‘Rinascita’ – la nahda del secolo XIX – non ha avuto queste caratteristiche. Essa è invece la reazione a un trauma esterno. L’Europa, che la modernità aveva reso potente e conquistatrice, esercitava sul mondo arabo un effetto ambiguo, al tempo stesso di attrazione (ammirazione) e di repulsione (per l’arroganza della sua conquista). La Ri-nascita araba attribuisce al nome un significato letterale e implica che, se gli arabi – come avevano fatto gli europei (secondo le loro stesse parole) – fossero ‘tornati’ alle fonti, avrebbero ritrovato la loro grandezza. La nahda non sa in che cosa consiste la modernità che fa la grandezza dell’Europa.
Non è questa la sede per analizzare i diversi aspetti e momenti dello sviluppo della nahda. Mi limiterò a affermare che essa non compie quelle rotture necessarie con la tradizione che definiscono la modernità. La nahda non sa cosa vuol dire laicità, cioè la separazione tra religione e politica, condizione necessaria per permettere alla politica di diventare il campo della libera innovazione e quindi della democrazia nel senso moderno del termine. La nahda crede di poterle sostituire una rilettura della religione purificata dai suoi eccessi più retrivi. E, ancora oggi, le società arabe hanno difficoltà ad ammettere che la laicità non è una ‘specificità’ occidentale, ma un’esigenza della modernità. La nahda non capisce che cosa significa la democrazia, intesa giustamente come il diritto di rompere con la tradizione. Essa rimane quindi prigioniera dei concetti dello Stato autocratico; fa appello a un despota ‘giusto’ (al mustabid al adel) – e non ‘illuminato’. La nahda non capisce che la modernità produce anche l’aspirazione delle donne alla loro liberazione e, con essa, il diritto a esercitare il loro diritto di innovare, di rompere con la tradizione. In definitiva la nahda riduce la modernità all’apparenza immediata di ciò che produce: il progresso tecnico. Questa presentazione, volutamente semplificata, non vuole però ignorare le contraddizioni espresse nella nahda, né la presenza di alcuni pensatori di avanguardia consapevoli delle sfide reali della modernità, come Qassem Amin per quanto riguarda l’importanza della liberazione delle donne, Ali Abdel Razek per quella della laicità, Kawakibi per la sfida democratica. Ma nessuna di queste analisi ha avuto conseguenze pratiche. Al contrario, la società araba ha reagito rinunciando a seguire le vie indicate. La nahda non è quindi il momento della nascita della modernità nei paesi arabi, ma quello del suo aborto.
continua. 1
di Samir Amin, direttore del Third World Forum