Il noto semiologo faccia a faccia con i deus ex machina della pellicola
Supereroi contro la crisi, al cinema. Basso: «Contro nemici sempre più intangibili, le loro sembrano battaglie concrete»
«Occuparsi di salute ambientale sarebbe salutare anche a un cinema che fatica a trovare storie nuove da raccontare»
[28 Giugno 2013]
Cambiate i soggetti, cambiate il contorno, ma la trama rimane sempre la stessa: «Superman indossa il suo mantello e (attenzione, spoiler!) salva il mondo da solo». Con ironia tipicamente british, l’Economist – celebre settimanale londinese, manifesto del liberismo – presenta l’arrivo nelle sale cinematografiche de L’uomo d’acciaio, ennesima pellicola di un filone sui supereroi, che puntualmente arrivano e sbancano al botteghino. Ma l’eroe mascherato non conquista solo nel buio delle sale cinematografiche.
A Isernia un uomo si aggira per la città, affiggendo manifesti col pipistrello di Batman per proteggere la città; a Camaiore, invece – mantello in spalla e tagliaerba in mano – il Supereroe Pragmatico fa strage dell’erba alta, forte del suo grido di battaglia: «Contro il soffocante immobilismo imposto dalla corte dei conti e lo stallo burocratico entro all’opera io».
Facendo la tara dell’ovvia ironia, il fascino del supereroe che si cala dal cielo per risolvere problemi altrimenti troppo complicati per noi comuni mortali diventa più acuto con l’avanzare di una crisi economica che la massa di economisti e politici – figuriamoci le casalinghe di Voghera – non riesce a sanare, e spesso neanche a spiegare. Cerchiamo così consolazione dai supereroi del grande schermo? Pierluigi Basso, semiologo alla Libera università di lingue e comunicazione (Iulm) di Milano ci fa da guida in questo mondo (del) fantastico.
Solitari salvatori del mondo che da anni si presentano al botteghino e conquistano il pubblico. Un fenomeno che ormai attrae anche l’Economist. Come si spiega questo trend?
«L’immaginario del supereroe ha a ben vedere antiche origini e una forte intensificazione già nella seconda metà del Novecento. È piuttosto facile cogliere che il passaggio dall’eroe al super-eroe dipende dal confronto collettivo con la sproporzione dei problemi che investono il destino degli individui. Anche se si precisano e tecnicizzano al massimo le competenze, esse non colgono più la totalità dei saperi necessari nemmeno per costruire un prodotto di consumo; anche se abbiamo centinaia di satelliti che monitorano il pianeta, questo è vieppiù inquinato e pieno di complotti segreti. In breve, la sproporzione fa sognare un riequilibrio che solo un’individualità straordinaria potrebbe riscattare.
Piuttosto, si deve notare che la specificità degli anni 2000 nasce dal fatto che il supereroe si ripiega nella sua intimità; ciò dipende dal fatto che la serialità dei film con supereroi si porta dietro una ripetitività del male che devono affrontare e infine esso appare come irredimibile. Nemmeno il supereroe annuncia più un avvento: la distopia a cui pone rimedio non ha più la correzione di tiro del modello immaginario di civiltà a cui aspirare.
Il supereroe dei nostri anni è uno che accetta il destino di un pianeta, se non di una città, e i suoi limiti interni. Superman e Batman hanno successo perché vorrebbero “normalizzare”, ridurre la sproporzione, annullare in fondo il cielo, la vastità del cosmo. Volare è normalizzare l’aria come spazio di trasporto in orizzontale. In crisi, sono i supereroi che si ostinano a vedere la Terra come uno spazio troppo asfittico rispetto alle loro ambizioni; supereroi che vorrebbero portarci lontano, come ad assaggiare sproporzioni ben più radicali, cosmiche, in grado di reinterrogare ancora le nostre identità e i nostri destini.
Si assiste poi, a latere ma con molto chiasso, ai supereroi fantasy, privi di vincoli, buoni per consumi svagati, che esemplificano tuttavia una cultura profondamente antiecologica, almeno in termini comunicativi. Lo spreco di senso di questi supereroi senza parametri è dato dal fatto che hanno poteri talmente sconfinati che infine non sembrano più trovare un confronto dialettico con un nemico “proporzionato”. Così, queste narrazioni finzionali sono ogni volta costrette a trovare una soluzione ad hoc per assegnare vittorie a supereroi talmente smodati da apparire invincibili; invece di essere elaborata e drammatizzata, la sproporzione viene solamente rincarata e portata a un parossismo accecante e privo di pensiero».
Da più di cinque anni siamo inseguiti da una crisi finanziaria che è divenuta poi economica e sociale. Individua qualche relazione psicologica tra il successo cinematografico dei supereroi e la crisi, con il desiderio nascosto di qualcun altro che risolva per noi i nostri problemi?
«Le crisi economiche sono tanto più tangibili nelle tasche dei cittadini quanto meno appaiono spiegabili sul piano delle loro più profonde e complesse motivazioni. Si scopre, nel contatto del profano con ogni scienza, che i pareri degli esperti sono contraddittori, controversi, attraversati da fattori d’indeterminazione. Il supereroe pare riscattare un fronte di battaglia concreta rispetto a nemici che sono sempre più immateriali, intangibili. E poi il supereroe fa risparmiare un sacco di soldi negli approvvigionamenti bellici: nel daydream garantito dal supereroe c’è un’economia delle soluzioni cognitive e degli investimenti materiali».
Il cinema stesso sta navigando nelle acque della crisi. Sta cambiando la sua relazione col pubblico?
«Il cinema è un medium resistente, contro chi lo dava già per morto, anche perché sa innovarsi sul piano tecnico, continuando ad offrire degli upgrade nella fruizione. Soprattutto, il cinema non è solo un medium e la sua tradizione di generi e di testi trova una continuità malgrado i salti di tecnologia. In terzo luogo lo spazio del cinema è una dimensione sociale privilegiata: è collettiva (rende partecipi di uno stesso mondo di riferimento) ed esclusiva (si è invitati a sospendere altri contatti con l’esterno). Questi aspetti mi pare daranno un futuro certo al cinema, malgrado possibili, ulteriori restrizioni del mercato. La cosa certa è che il cinema da arte avanguardistica si è trasformato in un presidio pubblico di conservazione di pratiche di condivisione e di riflessione».
Quali contribuiti pensa che le sale cinematografiche possano riuscire a offrire per comunicare e rendere comprensibili al grande pubblico i temi della sostenibilità sociale, ambientale, economica?
«Mi sembra che il pericolo più forte sia l’autocomunicazione, se non l’autocelebrazione. In questo caso i film parlano solo a un pubblico già convinto e garantiscono solo un rinforzo cognitivo ad opinioni già elaborate altrove o autonomamente. Tuttavia, il cinema degli ultimi anni ci ha offerto splendidi esempi di film che hanno cominciato ad impattare un pubblico più vasto; i toni sono perlopiù quelli dell’inchiesta e della denuncia, ma non mancano racconti anche in chiave più costruttiva, spesso perché legati a temi enogastronomici, i quali consentono di articolare il racconto di vita dei produttori e l’esperienza edonica dei fruitori. Etica ed estetica si rinforzano produttivamente».
Il mondo dei media, tradizionali o meno – e dunque non solo il cinema – ha difficoltà a comunicare in modo attraente il macrotema della sostenibilità. Colpa dell’offerta del mezzo, o della domanda del pubblico che non è ricettiva?
«Innanzitutto dobbiamo dare merito ad alcuni film, soprattutto documentari, di aver esercitato un ruolo critico fondamentale in questi anni, sollevando pesantemente delle contraddizioni sociali che investono il mondo dell’alimentazione. La fiction, invece, anche quella più impegnata, ha saputo più ironizzare (vedi La parte degli angeli di Ken Loach) sugli eccessi della moda enogastronomica che sviluppare la questione in termini di sostenibilità. Penso, ad esempio, che la fiction seriale potrebbe perfettamente avere un dispiegamento temporale e una taglia degli eventi narrativi adatti al protagonismo di personaggi impegnati sul fronte della sostenibilità.
Se ciò manca, non è affatto una colpa del pubblico, ma una mancata consapevolezza del mondo produttivo del cinema. Le relazioni tra ambiente naturale, sociale ed economico sono molto complesse ma estremamente ricche d’implicazioni, di relazioni da scoprire e dispiegare narrativamente. Forse occuparsi un po’ di salute ambientale sarebbe salutare anche a un cinema che fatica a trovare storie nuove da raccontare. In ogni caso, non è possibile sottovalutare questa mancanza produttiva: essa è sintomatica del fatto che, malgrado l’abuso del termine, la sostenibilità resta una piattaforma culturale piuttosto mal conosciuta e introiettata in termini fumosi. Acquista concretezza solo nel catastrofismo, ma a quel punto il plot è già riservato ai supereroi».