Titolo V, dalla riforma nuove e non minori conflittualità tra Stato e regioni
[19 Ottobre 2016]
L’Unità ha pubblicato un articolo sulla proposta nuova versione del Titolo V, in cui sostiene che la sua modifica in senso più centralista è un caposaldo della riforma costituzionale. Così addio concorrenza e competenze più chiare. Siccome il tutto fin dalle prime battute è stato ricondotto al fallimento del vecchio Titolo V del 2001, per aver prodotto solo una paralizzante conflittualità tra Stato e regioni che bisogna lasciarsi alle spalle, sarebbe bene ricordare che quella scelta mosse dall’esigenza di superare il centralismo imperante che aveva fallito nonostante alcune leggi importanti che prevedevano una rapporto di ‘leale collaborazione’ tra Stato e regioni.
Fu per rimediare a questa persistente difficoltà che emergeva chiaramente anche nella gestione di ambiti soprattutto ambientali – vedi coste, bacini idrografici, parchi – dove importanti leggi innovative risultavano penalizzate. Ricordo perfettamente come in commissione Affari costituzionali e nella Bicamerale per le questioni regionali ricorresse puntualmente il richiamo all’interesse nazionale ogni qualvolta si trattava di procedere d’intesa con le regioni si preferisse limitarsi a sentirle.
Quando leggo anche nell’articolo dell’Unità che alle regioni saranno sottratte una lunga filza di competenze, ma che esse al Senato potranno rifarsi cercando di influire sulle leggi dello Stato, visti anche i risultati della Conferenza Stato-Regioni, mi chiedo come si possa credere davvero a simili ipotesi smentite da anni e anni di esperienze parlamentari.
Nel 2001, infatti, si cercò di uscire da questo centralismo imperante con il nuovo Titolo V che ha però fallito. Ma davvero si pensa che il ritorno alla supremazia dello Stato, come sancita nel testo – cioè un ritorno al vecchio centralismo – rimedi alla conflittualità costituzionale e istituzionale? Le confuse e pasticciare procedure previste dalla riforma, come tanti esperti hanno già denunciato, riprodurranno nuove e non minori conflittualità, che vedranno le regioni più esposte di prima alle interferenza statali, con tanti saluti alle tanto decantate semplificazioni.
Singolare, infine, che si consideri normale tener fuori dal contesto regionale le regioni a statuto speciale. Negli anni ottanta una indagine della Bicamerale per le questioni regionali rilevò in un documento finale sia lo squilibrio ingiustificato tra le stesse regioni speciali – ricordo le polemiche della Sardegna sulle ben più ampie competenze della Sicilia – ma anche i non brillanti rapporti con le autonomie locali. Che oggi non risulteranno certo semplificati e rafforzati con la scomparsa delle province dalla Costituzione (ma non nella realtà territoriale).
A questo riguardo vorrei precisare che a differenza da quanto affermato da Piero Fassino in un paio di interviste, il Pci non sostenne l’abrogazione delle province negli anni ottanta come conferma la lettera di Enrico Berlinguer all’assemblea dell’Upi che io illustrai, in cui si sosteneva che le province dopo l’istituzione delle regioni avrebbero dovuto svolgere, in raccordo ai comuni, un ruolo nuovo in cui le autonomie non dovevano più esseri meri uffici decentrati della amministrazione dello Stato soggetti ai controlli prefettizi.
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