Anche in Cina la globalizzazione ha portato a un boom della disuguaglianza
Un pioneristico studio condotto dall'economista Thomas Piketty sul gigante asiatico, incrociando i dati degli ultimi 40 anni
[21 Luglio 2017]
Da qualsiasi punto si osservi la storia, la grande protagonista della tumultuosa crescita nell’era della globalizzazione rimane sempre lei, la Cina. Economicamente parlando oggi è la seconda potenza mondiale, ma neanche 40 anni fa era ancora l’emblema di un gigante addormentato nella propria povertà. Allora il Pil procapite era di 120 euro al mese, oggi ha superato la soglia dei 1.000. Un’impennata che si è rivelata però lontanissima dal mantra comunista “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Quanto lontana?
A domandarselo è un team di economisti guidato dal francese Thomas Piketty, ormai un guru per quanto riguarda l’analisi della disuguaglianza, che al tema ha dedicato un approfondito lavoro di ricerca partendo da uno sconsolante presupposto: parlando di reddito e ricchezza, non disponiamo di statistiche ufficiali, coerenti e affidabili sulla disuguaglianza in Cina. Il lavoro degli economisti ha dunque portato a «dati molto imperfetti» e necessariamente migliorabili, per loro stessa ammissione, ciononostante il pioneristico risultato finale merita i dovuti approfondimenti: il tema affrontato è infatti di «enorme importanza non solo per la Cina e per il suo futuro percorso di sviluppo, ma anche per il resto del mondo e per la sostenibilità sociale della globalizzazione».
Le stime ottenute sono ambivalenti. Da una parte rimarcano l’indubbia crescita economica del Paese – la quota del Pil cinese su quello mondiale è salita dal 3% nel 1978 a circa il 20% del 2015 –, dall’altra la profondità delle disuguaglianze che nel mentre hanno messo radici.
Al 10% più ricco della popolazione andava il 27% del reddito nazionale nel 1978, quota bruscamente salita al 41% nel 2015 (l’1% più ricco è al 15%); al contempo, il 50% ha visto la propria quota crollare dal 27 al 15%, con il gap tra aree rurali e urbane che è andato allargandosi nel tempo. «Riassumendo, il livello di disuguaglianza in Cina alla fine degli anni ’70 era inferiore alla media europea – e più vicino a quello osservato nei più egualitari paesi nordici – ma ora si sta avvicinando ad un livello quasi comparabile a quello degli Stati Uniti». Dunque, al momento «il modello di sviluppo cinese sembra essere più egualitario di quello degli Usa, ma meno di quello dei paesi europei». Per combattere la disuguaglianza senza minare la crescita economica non è dunque alla Cina che dovremmo guardare, ma – e non è una novità – alla Scandinavia.
C’è però un’altra importante lezione che arriva da est: il ruolo e la compatibilità di una forte presenza pubblica con lo sviluppo economico. Da 40 anni a questa parte la proprietà privata ha mosso passi da gigante all’interno del regime comunista, con la parte pubblica della ricchezza nazionale che si è contratta dal 70 al 30%: una quota che rimane però superiore non solo a quella attualmente riscontrabile in Occidente, ma anche a quella (15-25%) presente in questa parte del mondo nei decenni che hanno seguito la II Guerra mondiale, quel “trentennio glorioso” di keynesiana memoria. Al contrario dell’Europa (o degli Usa), adesso la Cina è ancora «un’economia mista con una forte componente di proprietà pubblica». La stessa che oggi punta a trasformare il Paese più inquinante al mondo nell’astro nascente della green economy, e non è un caso.
L. A.