Paghiamo circa 10 miliardi di euro l’anno a fronte di servizi sempre più complessi
Confcommercio e Anci, per frenare la Tari servono nuovi impianti di gestione rifiuti: dove?
Troppo spesso sono proprio gli enti locali, insieme alle imprese del turismo e commercio, a portare avanti battaglie di retroguardia dal sapore Nimby e Nimto
[2 Aprile 2021]
Se tenere pulita casa propria costa tempo, fatica e risorse, lo stesso vale per le nostre città: la tassa sui rifiuti che paghiamo (Tari) serve proprio a mantenere in piedi i servizi pubblici d’igiene urbana, ma i suoi costi sono spesso oggetto di frizione tra Comuni, imprese e cittadini, come mostra da ultimo la polemica innescata da ultimo tra Confcommercio e Anci.
La più grande rappresentanza d’impresa d’Italia – con 700mila imprese associate, dal turismo ai commercianti ai professionisti – punta il dito verso la Tari continua a crescere mentre le aziende chiudono sotto la pressione della pandemia e la produzione di rifiuti urbani è in calo per lo stesso motivo (stimano un -15% nel 2020, altre fonti si attestano al -10%). Secondo Confcommercio la Tari sarebbe cresciuta dell’80% dal 2010, mentre l’Associazione nazionale dei Comuni ribatte che – tenendo conto delle diverse formulazioni tariffarie che si sono succedute nel mentre – l’incremento si fermi al 25%.
Una differenza che la dice lunga sulla difficoltà di ricostruire un’informazione oggettiva nel merito, ma almeno entrambe le fonti si dicono d’accordo sull’ammontare complessivo della Tari (poco meno di 10 miliardi di euro l’anno) e su una strategia per limitarne l’incremento: accrescere la presenza di impianti di gestione rifiuti dove questi non sono ad oggi in grado di assicurare un servizio sostenibile (anche in termini di costi economici) e di prossimità.
«Occorre risolvere il problema della mancanza cronica di una dotazione impiantistica che – dichiara Pierpaolo Masciocchi, responsabile Ambiente e Utilities di Confcommercio – fa lievitare i costi dei piani finanziari dei Comuni e, quindi, delle tariffe per le utenze. La carenza di impianti costringe infatti ad inviare una parte considerevole di rifiuti nelle discariche o ad esportarli all’estero per il trattamento e l’incenerimento».
Una recente indagine Utilitalia ha effettivamente mostrato come, guardando solo agli urbani, il turismo rifiuti arrivi ormai a percorrere 49 milioni di km l’anno. Allargando lo sguardo a tutti i rifiuti speciali – gli urbani rappresentano appena il 18% di tutti gli scarti che produciamo, mentre i rifiuti speciali assimilati si stima abbiano finora oscillato tra il 16% e la metà di tutti i rifiuti urbani – le distanze percorse prima di arrivare agli impianti arrivino a un quantitativo enorme: 1,2 miliardi di km percorsi ogni anno, senza contare le tratte fuori confine.
Anche i Comuni parlano di «un tema ineludibile per dare efficienza al sistema in tutte le aree del Paese, quello della diffusione degli impianti di trattamento e riciclo. Anci – dichiara il segretario generale Veronica Nicotra – ritiene che questo tema debba essere al centro anche dell’azione regolatrice di Arera, oltre che essere oggetto di cospicui investimenti nell’abito del Pnrr», che peraltro finora sono molto scarsi.
Duole però osservare che troppo spesso sono proprio gli enti locali, insieme alle imprese rappresentate da Confcommercio, a portare avanti battaglie di retroguardia che impediscono la realizzazione di questi impianti. Se le sindromi Nimby in realtà sono soprattutto sindromi Nimto – non nel mio mandato elettorale, come mostra l’ultima indagine condotta dall’Osservatorio Nimby forum –, non si contano i casi in cui piccoli imprenditori ritengono che gli impianti di gestione rifiuti siano un ostacolo alla propria attività, al turismo, etc.
Senza portare allo scoperto e affrontare questi nodi, con un importante lavoro in termini di comunicazione e informazione di qualità – oltre che una buona dose di onestà intellettuale – sarà molto difficile pensare di poter affrontare gli altri emersi nel corso della diatriba Confcommercio-Anci.
Al contrario, pensare che i costi della Tari possano calare spontaneamente mentre i servizi d’igiene urbana crescono in complessità – come nel caso della raccolta differenziata – è una chimera che svia da un’interpretazione oggettiva del problema.
Confcommercio, ad esempio, da una parte sembra sorpresa dopo aver verificato che nel 58% dei Comuni che hanno già adottato il nuovo Metodo tariffario rifiuti (Mtr) Arera il costo della Tari sia cresciuto (in media del +3,8%), ma al contempo denuncia che finora la Tari sia dipesa «troppo dai piani finanziari del Comune di riferimento: molto spesso le amministrazioni comunali sforano i propri budget e per rientra e applicano aumenti alle tariffe locali compresa quella dei rifiuti».
Dietro ai due fenomeni pare evidente infatti un sistema di vasi comunicanti, nonostante la Tari dovrebbe rappresentare per legge una tassa per finanziare integralmente (e solo) i costi – di investimento e di esercizio – dei servizi di raccolta e smaltimento rifiuti, ad esclusione di quelli relativi ai rifiuti speciali.
Anche il recepimento delle ultime direttive Ue in materia di economia circolare, che ha eliminato per i Comuni la possibilità di decidere l’assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani, rischia di produrre effetti deleteri senza risposte pragmatiche in termini di dotazione impiantistica: si stimano 1,3 milioni di tonnellate l’anno di rifiuti urbani “in più” da gestire, ma senza impianti a crescere saranno solo tasse e polemiche.