Cosa sappiamo finora delle relazioni tra inquinamento atmosferico e Covid-19

Può l’esposizione a inquinamento atmosferico, sia cronica sia acuta, avere un effetto sulla probabilità di contagio, la comparsa dei sintomi e il decorso della malattia del coronavirus causata dalla Sars-Cov-2?

[14 Aprile 2020]

Che relazione c’è tra l’inquinamento atmosferico – soprattutto da particolato fine (PM) –, la diffusione della pandemia da Covid-19 e la prognosi di chi viene infettato dal coronavirus Sars-Cov-2? Molte autorevoli ricerche, quasi tutte appena divulgate e non ancora sottoposte a revisione, stanno cercando di rispondere a questa complessa quanto importante domanda, ma ancora una lettura robusta e condivisa da larga parte della comunità scientifica non è disponibile. Le evidenze finora raccolte, però, suggeriscono che l’inquinamento atmosferico sia uno dei fattori in grado di aggravare l’impatto di Covid-19 sulla popolazione.

Per fare chiarezza sulle conoscenze a disposizione è intervenuta la Rete italiana ambiente e salute, alla quale partecipano esperti del Sistema sanitario nazionale (Ssn) e del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa): un’alta concentrazione di particolato (PM10, PM2.5) rende il sistema respiratorio più suscettibile alla infezione e alle complicanze di Covid-19? Se sì, come? Quel che sappiamo è che più è alta e costante nel tempo l’esposizione a PM, più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia predisposto ad una malattia più grave.

Secondo gli esperti intervenuti per la Rete italiana ambiente e salute è però «improbabile» che il particolato atmosferico possa essere un supporto (carrier) per la diffusione del virus per via aerea del coronavirus Sars-Cov-2, una ipotesi che «non sembra avere alcuna plausibilità biologica. Infatti, pur riconoscendo al PM la capacità di veicolare particelle biologiche (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, frammenti vegetali), appare implausibile che i coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor».

Molto diverso invece è chiedersi se l’esposizione prolungata alle polveri sottili renda i polmoni più fragili e propensi a forme gravi di Covid-19; del resto, l’Istituto superiore di sanità già da tempo spiega che anche il fumo di tabacco favorisce le infezioni respiratorie, e che per i fumatori è più elevato un rischio di situazioni cliniche più gravi da Covid-19. Almeno tre ricerche condotte sul contesto italiano (di cui abbiamo dato conto qui e qui) e una elaborata ad Harvard per gli Usa offrono solidi indizi per una risposta fortemente positiva al quesito, ma anche in questo caso gli esperti della Rete italiana suggeriscono cautela: «Anche il lavoro dei colleghi di Harvard presenta problemi metodologici molto importanti, quali ad esempio il mancato controllo per autocorrelazione spaziale sia della esposizione sia del contagio».

Detto questo, la necessità di indagare più a fondo rimane: «Dal punto di vista della ricerca ci sono molti quesiti a cui i ricercatori dovranno dare una risposta, il principale è “Può l’esposizione a inquinamento atmosferico, sia cronica sia acuta, avere un effetto sulla probabilità di contagio, la comparsa dei sintomi e il decorso della malattia del coronavirus causata dalla SARS-CoV-2?” […] Sarà indispensabile promuovere collaborazioni per valutare in modo approfondito le relazioni tra inquinamento atmosferico e Covid-19 tenendo conto delle condizioni meteorologiche e interventi messi in campo per il contenimento dell’epidemia».

Sarà della partita anche l’Istituto superiore di sanità, come dichiarato nei giorni scorsi dal suo presidente Silvio Brusaferro: «Il recente studio di Harvard che correla inquinamento e diffusione del Covid-19 è uno studio solido che sollecita una riflessione importante, però dobbiamo essere consapevoli che va fatta un’analisi di dettaglio. Dobbiamo approfondire questo argomento ed i ricercatori dell’Iss lavoreranno su questo tipo di scenario». Sperando di aver presto a disposizione anche solo dati qualitativamente migliori sull’effettiva penetrazione del contagio da coronavirus (e dei suoi effetti) sulla popolazione italiana, perché quelli finora a disposizione sono a dir poco aleatori.