Dal Senato ok all'ultimo provvedimento. Legambiente: «Non ci convince affatto»

Dieci decreti per l’Ilva e quel Piano nazionale per l’acciaio che ancora non c’è

Il mondo della siderurgia cambierà molto nei prossimi anni, e l’Italia non ha alcuna strategia unitaria

[28 Luglio 2016]

Con 168 sì, 102 no e 2 astenuti, il Senato ha assicurato ieri l’ultimo voto (con fiducia) necessario al via libera al decreto Ilva, o meglio alle “Disposizioni urgenti per il completamento della procedura di cessione dei complessi aziendali del gruppo Ilva. La viceministro allo Sviluppo economico Teresa Bellanova ha salutato con favore l’approvazione di palazzo Madama: «Con questo decreto – ha dichiarato – si sancisce un cambio di paradigma, ponendo le basi per il definitivo rilancio di Ilva quale realtà trainante per il panorama industriale italiano».

Dal ministero dello Sviluppo enfatizzano gli aspetti ambientali tra i principali contenuti del decreto. Dalla «priorità del piano ambientale rispetto a quello relativo alla sostenibilità economica» al «rafforzamento sul versante dei controlli» fino all’istituzione «di un Comitato degli esperti, selezionato dal ministero dell’Ambiente a garanzia delle tutela e salvaguardia ambientale». Già oggi dalle rilevazioni Ispra e Arpa, sottolineano dal Mise, risulta «una riduzione dell’inquinamento ambientale. Ciò è dovuto alla realizzazione, da parte della gestione commissariale, degli interventi di ambientalizzazione previsti dal piano e all’applicazione delle prescrizioni che hanno prodotto una riduzione programmata della produzione, garantendo al contempo i livelli occupazionali». Si dimentica però una componente centrale nel contesto tarantino che ha portato a un miglioramento delle matrici ambientali. Come ricordato recentemente dall’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini su Italia Oggi, da quando l’inchiesta giudiziaria sull’Ilva deflagrò nel 2012 l’impianto ha registrato «una riduzione di quasi il 40% della capacità produttiva (a tutto vantaggio dei competitori internazionali), 1 miliardo di euro di perdita all’anno, 4 mila esuberi previsti» su 11mila occupati effettivi. L’augurio, ovviamente, è che gli esuberi rimangono soltanto “temporanei”, ma certo non contribuiscono a rasserenare gli animi.

Anche sotto il profilo ambientale rimangono importanti criticità. «Il decreto Ilva – dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente – non ci convince affatto e siamo convinti che il governo abbia perso una importante occasione per dimostrare che sia possibile coniugare diritto alla salute e all’ambiente con il diritto al lavoro e le esigenze produttive». Anche se Legambiente riconosce nel testo «alcuni punti positivi come la deroga per le assunzioni in Arpa Puglia e un limite temporale all’impunità dei gestori, purtroppo restano diverse criticità», in primis «l’aver stabilito una proroga fino a 18 mesi fornirà una giustificazione all’ulteriore slittamento dell’attuazione delle più importanti misure previste dall’Aia, dalla copertura dei parchi minerali agli interventi sulle batterie, con ulteriori ritardi e blocco degli interventi».

Dubbi importanti, che si sommano a quelli legati all’aspetto produttivo. I termini per la cessione a privati dell’impianto siderurgico (due le cordate in campo, AcciaItalia per Cdp Equity-DelFin-Arvedi e Am Investco Italy per ArcelorMittal-Marcegaglia) sono già slittati, si pensa all’inizio del 2017. Per allora il contesto internazionale, e in particolare il ruolo di economia di mercato che dovrà essere riconosciuto o meno alla Cina, dovrebbe essere più chiaro. Quel che è noto oggi non è rassicurante.

Come ha riassunto il responsabile Ufficio studi di Siderweb Gianfranco Tosini, durante i recentissimi Stati generali dell’acciaio, quello della siderurgia è un mercato dominato oggi dalla sovraccapacità produttiva, che s’incrocia con il rallentamento dell’economia globale. Nonostante queste dinamiche «il consumo di acciaio passerà dagli attuali 1,63 miliardi di tonnellate a quasi 2 miliardi di tonnellate», con un incremento concentrato però «per il 90% nei Paesi emergenti. Nei Paesi sviluppati la domanda di acciaio crescerà di circa il 10% rispetto ai volumi attuali, ma resterà sotto il livello pre-crisi». La parte del leone andrà alla produzione di acciaio con forno elettrico, che «aumenterà dall’attuale 28% a circa il 40%». Questa rimodulazione porterà anche benefici all’ambiente, in quanto «permette di utilizzare come input diversi tipi di materie prime (rottame, ghisa, preridotto) e riduce sensibilmente l’impatto ambientale».

Non è affatto scontato che il sistema italiano sappia rispondere evolvendosi sufficientemente in fretta. Ed è forse proprio qui la maggiore lacuna dell’impianto legislativo messo in piedi in 4 lunghi anni dal governo italiano. Quella appena varata è la decima legge dedicata all’impianto Ilva, ma il Piano nazionale per l’acciaio evocato a più riprese non è neanche in fase di gestazione.

Come osserva anche Tosini, le leve su cui puntare per rilanciare la siderurgia italiana sono in primis «la razionalizzazione e la riorganizzazione del settore; la ricerca finalizzata alle innovazioni di processo, di prodotto e organizzative; lo spostamento della produzione dalle commodities a prodotti a maggior valore aggiunto». Perché una trasformazione di questa portata possa avere maggiori possibilità di successo è necessario che a muoversi sia quantomeno il sistema-Paese, con un coordinamento tra le varie realtà produttive, senza stare a scomodare il (pur necessario) contesto europeo. Tutto questo ad oggi non esiste. Eppure secondo l’esecutivo Renzi «il nuovo decreto dimostra che ambiente e lavoro possono coesistere, confermando un obiettivo strategico di questo governo». La speranza è che alla fine della partita non siano a rimetterci entrambi i fronti, con bonifiche mancate da un lato e 11mila disoccupati dall’altro.