Censis-Confcooperative: «Discriminazione tra generazioni», i giovani restano indietro
L’insostenibile disuguaglianza d’Italia continua a crescere
Il Pil è tornato a salire e la disoccupazione a scendere, ma il Paese non sta meglio. Per Bankitalia il rischio povertà è a un «livello molto elevato», ma non per tutti: il 30% più ricco delle famiglie ha in mano il 75% della ricchezza, il 30% più povero solo l’1%
[13 Marzo 2018]
L’economia italiana è tornata a crescere, il numero degli occupati anche, eppure rischio di povertà e disuguaglianza non accennano a diminuire. Anzi, i livelli di guardia sono stati già oltrepassati da tempo.
Come informa la Banca d’Italia, che ha pubblicato ieri uno studio a partire da oltre 7mila famiglie intervistate, nel nostro Paese il reddito medio equivalente è salito a circa 18.600 euro nel 2016 (a fronte di un reddito annuo familiare sostanzialmente stabile a 30.700 euro), segnando il primo incremento dopo crolli continui tra il 2006 e il 2014. Dati dal 2016 in poi non sono ancora disponibili, ma quelli forniti oggi dall’Istat sull’economia italiana lasciano pensare che il trend sia continuato: nel quarto trimestre 2017 il Pil nazionale è cresciuto del +0,3% in termini congiunturali e del +1,6% su base annua (anche se il Pil dei paesi nell’area Euro ha corso praticamente a velocità doppia rispetto all’Italia, raggiungendo rispettivamente +0,6% e +2,7%), e dati apparentemente confortanti arrivano anche per il lavoro. Nel 2017 il tasso di disoccupazione italiano è sceso all’11,2%, il livello più basso dal 2013, mentre il tasso di occupazione è salito al 58%, il più alto dal 2009. Eppure gli italiani non paiono granché soddisfatti di questi progressi, come mostra il messaggio molto chiaro arrivato dalle urne del 4 marzo, e per scoprire perché sarebbe utile dare un’occhiata ai numeri finiti sotto al tappeto: la crescita economica non ha fatto altro che incrementare le disuguaglianze di reddito e ricchezza, mentre i nuovi posti di lavoro sono in gran parte precari e di bassa qualità, esacerbando anche in questo caso nuovi divari – in questo caso generazionali. E a testimoniarlo tornano proprio i dati Bankitalia.
«L’indice di Gini del reddito equivalente, una misura sintetica di disuguaglianza che varia tra 0 e 1, nel 2016 è salito al 33,5%, dal 33% del 2012 e del 2014 – spiega la Banca d’Italia – La crescita della disuguaglianza si è accompagnata a un ulteriore aumento, a circa il 23%, un livello molto elevato, della quota di individui con reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, una soglia convenzionalmente usata per individuare il rischio di povertà e pari nel 2016 a circa 830 euro mensili. L’incidenza di questa condizione è più elevata tra le famiglie con capofamiglia più giovane, meno istruito, nato all’estero, e per le famiglie residenti nel Mezzogiorno». Di più: osservando le famiglie “finanziariamente povere”, ovvero quelle che anche liquidando tutte le attività finanziarie immediatamente disponibili non avrebbero risorse sufficienti per evitare il rischio di povertà per almeno tre mesi, si scopre che vive «in questa condizione di vulnerabilità il 44% della popolazione, una quota ancora decisamente superiore a quella registrata nel 2006».
E se va male per le disuguaglianze di reddito, per la distribuzione della ricchezza va anche peggio. Alla fine del 2016, documenta ancora Bankitalia, il 30% più povero delle famiglie detiene l’1% di tutta la ricchezza nazionale, mentre il 30% più ricco delle famiglie ne assorbe il 75% (con il 40% di questa quota a sua volta in mano al solo 5% più ricco tra le famiglie già ricche).
Concludendo, il decennio tra il 2006 e il 2016 è stato all’insegna della disuguaglianza, con le giovani generazioni come massime perdenti: in questo lasso di tempo la povertà finanziaria è infatti scesa dal 39 al 35% per i nuclei con capofamiglia over65, mentre è aumentata dal 40 al 57% per gli over40. Non si tratta di un caso, ma di scelte politiche l’intero Paese è chiamato a pagare: senza l’apporto delle generazioni più giovani, è ovvio, il motore economico d’Italia è infatti destinato ad arenarsi.
I giovani sono “solo” quelli in prima fila. Non a caso il focus Censis-Confcooperative Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?, presentato oggi, parla di «bomba sociale che va disinnescata». Assistiamo a una discriminazione tra generazioni – spiega il focus partendo dal dato delle pensioni – Già oggi, il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6%. Ma questo «nella migliore delle ipotesi. Rischia di andare molto peggio a 5,7 milioni di persone. Infatti sono oltre 3 milioni i Neet (18-35 anni)», cui si aggiungono «2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia” confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscire e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita». Questo effetto di “sfrangiamento” del lavoro rispetto al passato è poi messo in evidenza «dalle tipologie di lavoro a “bassa qualità” e a “bassa intensità” che si stanno via via diffondendo. Sono, infatti, 171.000 i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate».
Oggi più che mai, di fronte a questi numeri, la crescita dell’economia non è più condizione necessaria e sufficiente per la ripresa italiana. Occorre ridistribuire, migliorando così al contempo la sostenibilità (in primis sociale) del Paese, e finora lo Stato italiano non si è dimostrato purtroppo all’altezza del compito.