Sia Legambiente sia Ance indicano la stessa priorità: l'economia circolare
Meno cave, più green economy: il settore delle costruzioni ha futuro solo col riciclo
Un’evoluzione frenata da decreti mancanti, controlli bluff e dati bugiardi. Ma un’altra economia sta già prendendo forma
[23 Giugno 2016]
Dopo anni di crisi che ha falcidiato il settore, ormai ambientalisti e imprenditori edili sono arrivati ad elaborare – in modo autonomo gli uni dagli altri – una visione molto simile sul futuro delle costruzioni in Italia. In un Paese dove l’avanzata del cemento è finora parsa inarrestabile, si tratta di una notizia interessante. Tanto più che la notizia è ottima: «Il futuro delle costruzioni – spiegano da Legambiente – passa per l’innovazione ambientale». «Nel contesto dell’economia circolare – spingono da Ance, l’associazione nazionale costruttori edili – il settore delle costruzioni riveste un ruolo cardine».
Negli ultimi due giorni, il Cigno verde e l’Ance hanno incanalato le loro analisi in due dossier distinti, rispettivamente il secondo rapporto dell’Osservatorio Recycle – La sfida nel settore delle costruzioni e il documento Una politica industriale per il settore delle costruzioni – Le proposte dell’Ance. In entrambi i casi, si individua nell’economia circolare lo strumento cardine per un rilancio di un settore ormai sfiancato.
In Italia, riassumono da Ance, il tessuto produttivo industriale del settore delle costruzioni occupa circa 1,4 milioni di addetti, suddivisi tra 549.8461 imprese: in soli 5 anni, tra il 2008 e il 2013, 80mila sono state quelle che hanno chiuso i battenti. Un calo generalizzato a tutto il territorio nazionale, con tassi di flessione che oscillano però tra il -4,9% della Puglia e il -18,2% della Toscana. Occupati e imprese che non torneranno se non si cambia il modello di sviluppo.
«Per contribuire allo sviluppo dell’economia circolare – hanno spiegato i vertici di Ance al neo ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda – occorre da una parte incentivare e favorire il riutilizzo dei materiali da costruzione, dall’altra promuovere una vasta azione di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente». La lezione fornita negli anni dall’ecobonus in campo energetico ha evidentemente dato i suoi frutti. E adesso come azione prioritaria i costruttori indicano che «va incrementata non solo la diffusione degli impianti di recupero sul territorio, ma la possibilità di effettuare le operazioni di recupero direttamente sul luogo di produzione e il successivo riutilizzo nel medesimo sito. In pratica si tratta di attuare il principio della filiera il più corta possibile, che si traduce in primo luogo in una riduzione della circolazione di veicoli pesanti e del relativo inquinamento e poi in un minore impatto ambientale dell’opera grazie al minore fabbisogno di materiali da cava».
Proprio le cave e il loro impatto sul paesaggio, spiegano da Legambiente, rappresentano una delle «questioni ambientali più importanti nel nostro Paese». In Italia se ne contano oggi circa 2.500 cave da inerti e almeno 15.000 abbandonate – gli stessi numeri mostrati già un anno fa –, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia: «Cambiare questa situazione, aprendo un filone della green economy che in tutta Europa sta creando ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse del sistema delle imprese italiane».
La soluzione sta nel dare spazio ai materiali riciclati, dato che «oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici che possano essere utilizzati come scuse per non utilizzare materiali provenienti da riciclo nelle costruzioni». I singoli esempi virtuosi non mancano – dallo Juventus stadium all’aeroporto di Malpensa, dall’autostrada del Brennero al porto di La Spezia –, ciò che cronicamente difetta è un coerente quadro normativo e di appalti pubblici.
A leggere le carte ufficiali non sembrerebbe: la direttiva europea 2008/98/CE prevede che al 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione, mentre in Italia il Collegato ambientale (Legge 221/2015) e il nuovo Codice degli appalti (Decreto Legislativo 50/2016) spingono per l’introduzione di criteri ambientali minimi negli appalti pubblici. Anche alcuni regolamenti urbanistici (come a Bologna) e leggi regionali rappresentano delle avanguardie: in Toscana, ad esempio, dal 1998 vige nei bandi di gara pubblici l’obbligo di utilizzo del 15% di aggregati riciclati.
E allora? «In realtà – spiegano da Legambiente – i segnali di un cambiamento sono lentissimi ed è arrivato il momento che il governo imprima un’accelerazione». Come sempre, infatti, il problema sta nel passaggio dalla teoria alla pratica. Fatte le leggi mancano i decreti attuativi (come nel caso del Collegato ambientale), spesso i singoli capitolati «sono una barriera insormontabile per gli aggregati riciclati», e in generale mancano riferimenti chiari e controlli severi. Senza di il rischio è che si ripeta quanto avvenuto con il DM 203/2003: le società pubbliche già oggi coprire il 30% del proprio fabbisogno annuo di beni con prodotti da materiale riciclato, ma «non avendo mai specificato come il processo dovesse essere portato avanti in nessun cantiere pubblico questi obiettivi sono stati realizzati».
Non solo: anche la contabilità dei rifiuti edili fa acqua da tutte le parti. Secondo l’Ispra (dato 2013) in Italia vengono prodotti circa 48 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione, e secondo i dati ufficiali il Bel Paese avrebbe già superato il target del 70% di riciclo imposto dall’Ue per il 2020 (siamo al 75%). «Un dato che dovrebbe far ben sperare, ma che invece è parziale e inattendibile – insistono gli ambientalisti – poiché in molte Regioni non esiste alcun controllo o filiera organizzata del recupero e non si conteggia lo smaltimento illegale». D’altronde, è lo stesso ministero dell’Ambiente ammette che «la metodologia di calcolo comporta una serie di criticità», e lo stesso non si stanca di ripetere l’Ispra: la percentuale di riciclo viene infatti calcolata dall’Istituto attraverso le informazioni contenute nel Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud), una metodologia che si è già ampiamente mostrata lacunosa e inadeguata. Il risultato è che la produzione dei rifiuti da costruzioni e demolizioni rappresenta al massimo una stima.
Nonostante ciò, i dati Eurostat mostrano un assaggio della realtà italiana e della sua distanza con gli altri Paesi europei: un Paese “piccolo” (ma con dati evidentemente più accurati) come l’Olanda produce 1,47 tonnellate di rifiuti da C&D procapite, mentre un Paese più grande e cementificato come l’Italia produrrebbe solo 0,8, circa la metà (!). In Olanda, poi, il 95% di questi rifiuti risulta riciclato, mentre da noi è l’opposto. Il 91% finisce in discarica o a incenerimento.
Per cambiare radicalmente strada, Legambiente indica 3 priorità: cambiare i capitolati fissando obiettivi prestazionali; attuare la direttiva europea introducendo obblighi crescenti di utilizzo di aggregati riciclati; controlli e monitoraggio dei rifiuti da demolizione.
La posta in palio è altissima, per ambiente ed economia: in primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché «le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione che il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate». In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava: «Arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di chiudere almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno». Infine, da un punto di vista della riduzione di emissioni di gas serra. Anche solo aumentando la quantità di pneumatici fuori uso recuperati e utilizzati fino a raddoppiarla al 2020, «diventerebbe possibile riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh. Ossia il consumo in più di due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate».
Cambiare la situazione attuale – concludono sia gli ambientalisti che gli imprenditori – aprendo un filone della green economy che in tutta Europa sta creando ricerca, innovazione e posti di lavoro, è nell’interesse del sistema delle imprese italiane. Vale la pena scommetterci, sperando che anche la politica lo capisca in tempo.