Serve una politica industriale per riqualificare lo sviluppo in campo tecnologico ed ambientale
La disuguaglianza continua a crescere in Italia, insieme ai lavoratori poveri
Oxfam: simili prospettive hanno spinto oltre 112mila laureati ad abbandonare il Paese, già nel decennio pre-pandemia
[13 Maggio 2022]
Si chiude oggi a Firenze il sipario sull’Oxfam festival “Creiamo un futuro di uguaglianza”, dove l’ong ha aggiornato il rapporto Disuguitalia dedicandolo quest’anno dal lavoro in crisi, leso nella sua dignità e che troppo spesso non basta a condurre una vita dignitosa.
Nel contesto europeo l’Italia spicca purtroppo per una diffusione marcata della povertà lavorativa: già nel pre-pandemia (2019) l’11,8% dei lavoratori italiani era a rischio di povertà, con 1 lavoratore su 8 annoverato tra i working poor. Un trend che è cresciuto in modo drastico negli ultimi anni e decenni.
L’incidenza totale dei lavoratori con basse retribuzioni risulta in forte crescita nei dodici anni intercorsi tra il 2006 e il 2017, passando dal 17,7% al 22,2%. Per allargare ancora di più l’orizzonte dell’analisi, il rapporto Oxfam si avvale dei dati Inps per documentare l’incremento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi da lavoro nel nostro Paese, nell’arco di tempo 1975-2017.
L’analisi dei dati restituisce l’aumento esorbitante della soglia per entrare nel top-0,1% reddituale, e soprattutto nel top-0,01%: per questo ultima fascia di lavoratori meglio retribuiti la soglia d’ingresso passa da 220.000 euro nel 1978 a 533.000 euro nel 2017 (+242%).
Come mai? La spiegazione nettamente prevalente dell’aumento della disuguaglianza salariale è imperniata sul capitale umano: la globalizzazione e il progresso tecnologico hanno accresciuto il premio per le abilità produttive che costituiscono il capitale umano, la cui disuguale distribuzione comporta una crescente disuguaglianza nei redditi da lavoro.
Diversi studi empirici mostrano tuttavia per il contesto italiano come il capitale umano spieghi solo in minima parte la crescente disuguaglianza salariale, confermano quanto il premio all’istruzione sia, più in generale, diminuito col tempo, e evidenziano ampie e crescenti disuguaglianze tra lavoratori a parità di istruzione (anche nel caso dei laureati).
Si prenda ad esempio il caso dei giovani italiani. In termini di età, le retribuzioni medie dei lavoratori giovani (15-29 anni) hanno visto contrazioni più marcate nel periodo 1975-2017 rispetto ai lavoratori adulti (30-49 anni) e agli occupati anziani (over 50). Al contempo il tasso dei Neet – giovani che non studiano né lavorano – è in crescita: per i 25-34enni l’incidenza è passata dal 23,1% nel 2008 al 30,7% nel 2020.
Al contrario di quanto afferma una certa vulgata diffusa in Italia, i motivi di questo disastro generazionale non sembrano affatto risiedere nella scarsa voglia dei giovani di applicarsi nel mondo del lavoro come in quello dello studio, anzi.
Come sottolinea il report Oxfam, un serio campanello d’allarme è rappresentato dalla dimensione assunta dal fenomeno della sovraistruzione giovanile: a metà 2020 oltre un giovane su 3, tra i 25 e i 34 anni di età, svolgeva un’attività professionale che richiedeva un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Simili prospettive di scarsa valorizzazione lavorativa non solo hanno spinto sempre più giovani (almeno 112 mila laureati nel decennio 2010-2019) ad abbandonare l’Italia in cerca di migliori opportunità altrove, ma compromettono oggi la traiettoria di sviluppo del Paese, dissipandone le risorse più preziose ed innovative, oltre che contribuire al progressivo degiovanimento dell’Italia con tutto ciò che comporta in termini di sostenibilità del welfare.
Altri fattori concorrono dunque al manifestarsi delle disuguaglianze, a parità di istruzione. Le spiegazioni vanno cercate nel ruolo della struttura di mercato, delle forme della contrattazione e delle tipologie contrattuali, della tecnologia, dei modelli organizzativi, delle istituzioni che governano il mercato del lavoro nonché il peso della famiglia d’origine nelle traiettorie lavorative.
A incidere sulla disuguaglianza e la povertà lavorativa, in Italia, sono il più che ventennale processo di de-industrializzazione – con un’espansione di occupazioni in settori economici a bassa produttività del lavoro e con salari orari più bassi –, la prevalenza di micro e piccole imprese (il 33% delle imprese del settore privato conta da 1 a 9 addetti, appena lo 0,7%, circa 26.000 imprese, hanno più di 50 addetti) e
un cronico ricorso a strategie competitive da parte delle imprese basate sulla compressione dei costi unitari del lavoro, che va di pari passo all’implementazione di politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Come reagire, dunque? Oxfam sottolinea la necessità di «un’azione di politica industriale orientata alla creazione di lavoro di qualità, a contrastare l’indebolimento dell’economia nazionale e a riqualificare lo sviluppo del Paese in campo tecnologico ed ambientale», delineando anche alcune linee d’azione sui contratti nazionali di lavoro.
Previa la definizione dei contratti collettivi principali, che richiede accordi sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale e datoriale, l’ong avalla un intervento legislativo che estenda erga omnes l’efficacia dei Ccnl principali – una decisa inversione di rotta rispetto all’attuale moltiplicazione incontrollata dei contratti collettivi nazionali, come testimoniano i quasi 1.000 censiti dal Cnel – e la successiva introduzione di un salario minimo legale.
«Ridare valore, potere e dignità al lavoro: è a queste tre parole chiave che auspichiamo possa ispirarsi l’agire politico, perché è in questi tre concetti – concludono da Oxfam – che si ritrova il senso più profondo del lavoro, di quel lavoro attorno a cui si edifica il nostro patto sociale».