La vicenda dei 282 container di rifiuti italiani bloccati in Tunisia, spiegata da Rossella Muroni

Intervista alla vicepresidente della commissione Ambiente della Camera e capogruppo di FacciamoECO a Montecitorio

[15 Luglio 2021]

Dall’anno scorso 282 container zeppi di rifiuti italiani sono bloccati dove non dovrebbero essere, ovvero fermi sotto sequestro nel porto di Sousse in Tunisia. Qual è ad oggi lo stato dell’arte della vicenda?

«Tutto è iniziato nell’autunno del 2019 con la firma di un contratto tra un’azienda italiana con sede a Polla (Sa), la Sviluppo risorse ambientali, e un’azienda tunisina, la Soreplast, per l’invio di 120mila tonnellate di rifiuti “non pericolosi” in Tunisia. Ma una ispezione delle Dogane tunisine ha rivelato che nei container non ci sono rifiuti plastici come dichiarato, ma scarti di ogni tipo che proverrebbero dalla raccolta differenziata domestica e non sarebbero destinati al recupero bensì allo smaltimento in discarica o all’incenerimento. Una tipologia che secondo le convenzioni internazionali non può essere esportata tra paesi Ue ed extra Ue.

Attualmente sono in corso indagini sia in Italia che in Tunisia volte ad accertare eventuali responsabilità per questo traffico di rifiuti. Secondo le indagini in corso in Tunisia, peraltro, a ricevere i rifiuti sarebbe stata un’azienda fantasma che, in ogni caso, non avrebbe potuto procedere al trattamento finalizzato al riciclaggio dei materiali.

Italia e Tunisia concordano sulla necessità di rimpatriare i container e segue da vicino la vicenda anche la Commissione europea, interessata da un’interrogazione presentata dagli eurodeputati Greens/Efa Piernicola Pedicini ed Eleonora Evi».

Ma c’è un problema ‘contabile’, ovvero chi paga il rimpatrio e il sequestro preventivo nel porto di Sousse che costa 26 mila euro al giorno?

«Dovrebbero pagarlo le due aziende che hanno sottoscritto il contratto, che evidentemente non sono entusiaste all’idea e non hanno fatto nulla. Le associazioni ambientaliste tunisine ed italiane chiedono, invece, che il Governo si assuma l’onere dell’operazione e che si rivalga poi nei confronti dei responsabili del traffico all’esito del procedimento giudiziario. Una strada, quest’ultima, che mi sembra corretta e praticabile e che solleciteremo presto all’esecutivo con una interrogazione.

Se siamo venuti a conoscenza del caso dobbiamo dare atto soprattutto alla società civile, alle istituzioni e al Parlamento tunisini. Che giustamente non nascondono la delusione per l’inerzia con cui la vicenda viene trattata sul fronte italiano ed europeo. Come ha recentemente affermato Majdi Karbai, deputato del Parlamento tunisino del Gruppo Democratico eletto nel partito Corrente democratica: “È sconcertante che l’Italia in oltre dieci mesi non sia riuscita rimpatriare i propri rifiuti inviati illegalmente in Tunisia. Noi democratici ci siamo impegnati da subito per fare chiarezza su questa vicenda e per arrivare al risultato atteso di rimpatriare i container. Se ciò non dovesse avvenire in tempi rapidi come auspichiamo, siamo pronti a intraprendere nuove iniziative”».

In base a quali leggi quei rifiuti non avrebbero dovuto finire in Tunisia, e quali sono le iniziative in corso per riportarli e smaltirli in Italia?

«Le Convenzioni di Basilea e di Bamako dispongono che i movimenti transfrontalieri sono possibili solo ove il rifiuto sia effettivamente destinato al riciclo, escludendo quindi i rifiuti destinati alla discarica o alla termovalorizzazione. Inoltre la Convenzione di Basilea prevede la consultazione preliminare tra i FocalPoints dei due Paesi, cosa che non è avvenuta in questo caso, vulnus fondamentale; farlo avrebbe consentito di verificare preventivamente che non ricorrevano le condizioni per l’export.

La Regione Campania ha bloccato le spedizioni, chiesto alle società interessate di riportare i container in Italia e denunciato la vicenda alla Procura della Repubblica di Salerno. Dunque, come dicevo, che i container siano da rimpatriare è certificato da Tunisia, convenzioni internazionali e Italia».

Nei container ci sono “scarti di ogni tipo che proverebbero dalla raccolta differenziata domestica, e non sarebbero destinati al recupero bensì allo smaltimento in discarica o all’incenerimento”. Un’ulteriore testimonianza di come in Italia ci siano carenze impiantistiche (anche) sul fronte del recupero energetico e dello smaltimento, per le quali si ricorre alla scorciatoia dell’export?

«Siamo un Paese dalle molte contraddizioni, fatto di eccellenze ma anche di arretratezze e illegalità. Un Paese che vanta importanti primati nel riciclo – e un recente studio di Symbola e Comieco ci dice che in Italia la percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti è pari al 79%, contro il 56% della Francia, il 50% del Regno Unito e il 43% della Germania – ma che è caratterizzato da forti disomogeneità interne. Abbiamo territori come Treviso, dove la differenziata supera l’86%, e Messina che nel 2019 per l’Istat era al 32,8%.

E sicuramente ci sono carenze impiantistiche, ma le vedo soprattutto per gli impianti che servono al riuso e al riciclo, come quelli per trasformare l’umido in compost o biogas. Per una corretta gestione del ciclo dei rifiuti bisogna programmare, ridurre i rifiuti, saperli trasformare in risorsa e anche avere presente il quadro europeo. Nel momento in cui riduci al massimo i rifiuti lavorando su prevenzione riciclo e il riutilizzo, il residuo che rimane è così poco che l’inceneritore non serve più. Considerando anche il target europeo che per il 2035 vuole in discarica solo il 10% dei rifiuti, risulta chiaro che l’Italia non ha bisogno di nuovi termovalorizzatori.

Poi dovremmo essere più bravi a riconoscere e a sostenere i nostri talenti. Come il primo impianto al mondo che tratta i pannolini usati e altri prodotti assorbenti e ne riutilizza i materiali.

Non credo che fenomeni illeciti come il caso del traffico dei rifiuti italiani in Tunisia siano legati a carenze impiantistiche. I dati ci dicono che l’export di rifiuti dall’Italia è contenuto e che i maggiori flussi di export europeo vengono dai Paesi con elevata capacità di incenerimento, come quelli dell’Europa centrale. In particolare Germania e Olanda sono i maggiori esportatori europei di rifiuti plastici. A conferma che non c’è relazione tra le due cose, che l’export non è influenzato dalla capacità di incenerimento e che questi fenomeni sono piuttosto da ricondurre a un modus operandi teso a sfruttare i minori costi di gestione all’estero.

La situazione va affrontata migliorando i controlli e la gestione delle convenzioni internazionali, come sta facendo l’Europa con la revisione della regolamentazione sul trasporto dei rifiuti. I limitati quantitativi nazionali di export possono essere erosi grazie alle buone pratiche. E ne abbiamo in abbondanza sul territorio nazionale, anche nelle zone di provenienza del carico. È possibile ridurre il quantitativo di rifiuti plastici inviati all’estero, ad esempio, con strategie di prevenzione come previsto dalla Direttiva Single use plastics, con il miglioramento della capacità di riciclo e con il sostegno al mercato dei polimeri riciclati.  Insomma, credo che il tema sia totalmente scollegato dalla necessità di incenerimento».

Anche nella migliore delle economie circolari resteranno nuovi scarti da gestire, che non sarà sempre possibile riciclare ulteriormente: ad oggi le attività di trattamento rifiuti e risanamento generano già 38,6 mln di ton di altri rifiuti (più di tutti gli urbani) ogni anno. Come crede sia più efficace comunicare questa realtà – e agire di conseguenza – dopo anni di travisante retorica su un’economia “a impatto zero”?

«Bisogna uscire dagli slogan e affrontare la realtà, informando correttamente i cittadini. Ma anche sul fronte dei rifiuti speciali molto ancora si può fare grazie all’innovazione, sia burocratica che tecnologica. L’Ispra ci dice che il 45,5% dei rifiuti speciali arrivano dal settore delle costruzioni e demolizioni. Bisogna consentire il riutilizzo di questi rifiuti nei cantieri. Penso ad esempio al Centro Italia colpito dal terremoto, le cui macerie ancora non possono essere riutilizzate sul posto nei tanti cantieri per la ricostruzione. E penso alla necessaria semplificazione dell’iter per arrivare ai decreti End of waste: sono fondamentali per l’economia circolare ma oggi servono in media almeno cinque anni per ottenerli. Un tempo troppo lungo, che blocca gli investimenti virtuosi. Per rendere l’iter più rapido ho raccolto una proposta del Circular economy network e presentato un emendamento al decreto Semplificazioni che spero sia accolto».