Le rinnovabili italiane tra decollo e “frenata”, a causa di Nimby e iter autorizzativi farraginosi
La nuova potenza elettrica rinnovabile installata in Italia tra il 2016 e il 2020 è pari a circa un terzo della media pro-capite europea
[22 Settembre 2022]
Nel corso di Circonomia, il Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica in svolgimento ad Alba – promosso in collaborazione con Legambiente, Kyoto Club, Fondazione Symbola – è stato presentato un nuovo rapporto che mette a confronto le performance italiane con quelle di tutti gli altri Paesi europei, in fatto di transizione energetica. Ne riportiamo di seguito un estratto, incentrato sulla dinamica delle fonti rinnovabili.
Insieme al miglioramento dell’efficienza energetica, lo sviluppo delle energie rinnovabili, sia elettriche che termiche, rappresenta l’altra faccia della riduzione dei consumi di combustibili fossili.
Questa prospettiva si basa sull’aumento del ricorso alle nuove energie rinnovabili, soprattutto energia solare termica ed elettrica ed energia eolica per la produzione elettrica. Le nuove rinnovabili non comprendono invece l’energia idroelettrica, fonte rinnovabile storica che in Italia è disponibile e utilizzata in misura rilevante ma il cui contributo è difficilmente espandibile e la cui produzione è fortemente influenzata dalle variabili climatiche.
Nel campo delle nuove rinnovabili i primi vent’anni di questo secolo hanno visto in Italia due fasi successive in radicale discontinuità una rispetto all’altra, con un periodo iniziale di rapido decollo e poi una decisa stagnazione.
Rispetto ai target europei relativi alla quota di rinnovabili sui consumi energetici – target diversificati per Paese – l’Italia ha superato l’obiettivo 2020 prima del tempo e in misura maggiore rispetto alla media europea e ai principali Paesi dell’Unione.
Il risultato del 2020, va detto, è in buona parte legato a una forte riduzione dei consumi energetici industriali: come generalmente in Europa, l’aumento della quota di rinnovabili sul totale dei consumi è dipeso più da una riduzione del denominatore (i consumi energetici) che da un incremento del numeratore (le fonti rinnovabili).
Nel settore elettrico tra il 2008 e il 2014 la quota italiana di rinnovabili è più che raddoppiata, passando dal 16,6% al 33,4%; questa progressione spettacolare ha visto un ruolo determinante del solare fotovoltaico. Nel settore termico l’incremento si è realizzato nel periodo 2004-2009, quando la quota di consumi è quasi triplicata (dal 5,7% al 16,4%); lo sviluppo del termico è in prevalenza dovuto ai consumi residenziali di biomasse che nel 2019 rappresentavano il 65% delle rinnovabili, a fronte del 26% delle pompe di calore e del 2% del solare termico.
Dal 2014 la crescita delle rinnovabili in Italia si è quasi del tutto fermata. Eravamo al 6,3% sui consumi finali di energia nel 2004, siamo balzati al 17,1% nel 2014 (target raggiunto), siamo rimasti inchiodati al 18% nel 2019 (la crescita del 2020 è dipesa tutta dalla contrazione del numeratore, cioè dei consumi totali di energia). Perché fermarsi? Anche la Danimarca aveva sostanzialmente raggiunto il suo target nel 2014, ma poi è cresciuta di altri 7 punti fino al 2019.
Questo rallentamento è particolarmente marcato nelle nuove rinnovabili elettriche. Nel 2010 la produzione elettrica da nuove rinnovabili era pari in Italia all’8%, meno della media europea e molto meno di Paesi come la Germania (14%) o la Spagna (18%). Nel 2015, con un grande balzo trainato dal fotovoltaico, l’Italia era arrivata al 23%.
E qui si è fermata: 2017, 2018, 2019, sempre il 23% della produzione elettrica. Così, la nuova potenza elettrica rinnovabile installata in Italia tra il 2016 e il 2020 è pari a circa un terzo della media pro-capite europea (72 W/ab contro 201) e a quella della gran parte dei Paesi dell’Unione (nei Paesi Bassi il dato è 9 volte quello dell’Italia).
Nel periodo 2015-2019 – escludendo il 2020 largamente condizionato dall’emergenza sanitaria mondiale lefgata al Covid – la quota di rinnovabili nella produzione elettrica italiana è cresciuta solo di 0,7 punti, a fronte dei 2,1 della media Ue e di valori superiori in tutti gli altri grandi Paesi europei, mentre nel settore termico la crescita è stata pari a 0,4 punti percentuali contro i 2,1 della media europea. La brusca “frenata” italiana è un caso quasi unico in Europa (anche la Spagna ha avuto un forte rallentamento, ma meno accentuato).
La Germania inizialmente è cresciuta meno velocemente di noi (dal 14% del 2010 è passata al 25% del 2015), poi però ha continuato a crescere e la quota di nuove rinnovabili sulla produzione elettrica è arrivata al 35% nel 2019. Un analogo trend di crescita costante ha riguardato sia Paesi che partivano da un tasso di rinnovabili inferiore all’Italia, come il Regno Unito (dal 6%% del 2010 al 22% del 2015, per arrivare al 35% nel 2019), sia Paesi tradizionalmente leader nel settore, come la Danimarca (dal 32% del 2010 al 62% nel 2015 fino al 78% nel 2019).
La stagnazione segue la fine dei grandi incentivi. Ma gli incentivi, sia pure con modulazioni diverse, sono venuti meno anche negli altri Paesi. E dunque ci sono anche altri elementi, di norme autorizzative inadeguate o ostili, di politiche locali, di capacità imprenditoriale, di domanda dei consumatori, che vanno considerate.
Segnali positivi di un trend delle rinnovabili in ripresa – non ancora misurati adeguatamente – emergono nel 2021 e 2022, anche per effetto della fortissima competitività di costo delle fonti rinnovabili e più recentemente in reazione all’impennata dei prezzi del gas a seguito della guerra russo-ucraina.
Lo stop nel trend italiano di crescita delle energie rinnovabili ha una causa principale: la lentezza e farraginosità degli iter autorizzativi per ottenere il via libera a nuovi impianti, in particolare solari ed eolici, cui spesso fa da sponda un fenomeno paradossale e in Italia particolarmente diffuso: il “Nimby” antiecologico praticato da gruppi, comitati, talvolta amministratori locali ed esponenti politici che si oppongono a progetti di parchi eolici, di campi fotovoltaici, utilizzando in modo del tutto pretestuoso argomenti connessi alla tutela dell’ambiente.
Recentemente Elettricità futura, l’associazione di rappresentanza delle aziende di produzione elettrica associata a Confindustria, ha lanciato sul punto un accorato grido d’allarme. In Italia il tempo medio necessario per ottenere l’autorizzazione a realizzare un impianto di energia rinnovabile è di 8 anni, il 300% in più dei 2 anni previsti dalla legge.
Nel settore elettrico – così Elettricità Futura – investire nella transizione energetica, sviluppando nuova generazione rinnovabile ed aumentando l’efficienza, può significare nei prossimi 10 anni 100 miliardi di euro di nuovi investimenti che si ripagano in 5 anni considerando i benefici economici in termini di valore aggiunto, 50 Mt di emissioni evitate di CO2 e creazione di 90 mila nuovi posti di lavoro.
La scelta opposta, quella di rimandare la transizione energetica, produrrebbe invece un danno economico e finanziario molto grande per il Paese, e in particolare l’inefficienza della macchina autorizzativa cancellerebbe circa 8,5 miliardi di euro ogni anno e cioè 85 dei 100 miliardi previsti, con un danno economico per mancati benefici pari a circa 2 miliardi di euro l’anno.