Presentato a Roma il nuovo rapporto di Circular economy network ed Enea

L’economia circolare italiana sta frenando

La produttività delle risorse, quella energetica e l’effettivo utilizzo di materiali riciclati (al 17,1% sul totale) sono fermi o in calo dal 2014. Ronchi: «Dobbiamo impegnarci a tenere alto il livello delle nostre performance»

[1 Marzo 2019]

L’economia circolare è un fenomeno complesso, che non si esaurisce nella gestione dei rifiuti ma si snoda attraverso l’intero ciclo di produzione e consumo, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento degli scarti. Se ne deduce come non sia affatto facile misurare il tasso di circolarità di un’economia: non stupisce dunque che dal primo rapporto nazionale nel merito elaborato dal Circular economy network e dall’Enea – e presentato oggi a Roma – emerga un quadro contrastante.

Da una parte l’indice complessivo di circolarità (ovvero il valore attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse, utilizzo di materie prime seconde e innovazione nelle categorie produzione, consumo, gestione rifiuti, etc) sembra restituire un roseo scenario: l’Italia con 103 punti è al primo posto tra le grandi economie europee, seguita da Regno Unito (90 punti), Germania (88), Francia (87), Spagna (81). Scavando più in profondità nell’indicatore aggregato, per sondare meglio gli aspetti più rilevanti di un’economia circolare, l’idillio finisce però quasi subito.

Un esempio su tutti: come si legge nel rapporto «la percentuale di riciclo dei rifiuti in Italia – un dato che include il trattamento dei rifiuti industriali su cui il nostro Paese ha buone performance – è pari al 67%, nettamente superiore alla media europea (55%) portandoci al primo posto rispetto alle principali economie europee». Tutto bene dunque? No, perché se rimane indispensabile avviare a riciclo i rifiuti che produciamo, quel che davvero conta è la capacità di re-immettere sul mercato i materiali tanto faticosamente riciclati, sostituendo così almeno in parte il consumo di materie prime. E qui arrivano le note dolenti: il contributo dei materiali riciclati al soddisfacimento della domanda di materie prime è rappresentato dal tasso di utilizzo circolare di materia (Cmu), pari in Italia (dati 2016) al «valore di 17,1%». Si tratta di un dato superiore alla media Ue (11,7%) ma inferiore a quello dei Paesi Bassi (29%), Belgio (20,6%), Francia (19,5%) e Regno Unito (17,2%) e, soprattutto, indiscutibilmente ancora troppo basso per parlare di un’economia davvero circolare. Non solo: negli ultimi anni le cose non sono migliorate, tutt’altro: in Italia «dopo una crescita fino al 2014, con un valore massimo di 18,5%, si è assistito ad una diminuzione nel biennio 2015-2016 dove ha perso 1,4 punti percentuali».

Non si tratta dell’unico segnale negativo. Dal 2014 a oggi c’è stato «un leggero regresso» anche per quanto riguarda la produttività delle risorse (siamo scesi da 3,24 euro/chilo a 3 euro di Pil per ogni chilo di risorsa consumata, quanto basta comunque per mantenerci ai vertici europei); anche per la produttività energetica si osserva «una sostanziale stasi della crescita: dal 2014 in poi il valore oscilla intorno ai 10,2 €/Pil». Segnali negativi arrivano anche dal Consumo interno di materia (Dmc): per l’Italia nel 2017 è pari a 514 Mt, e dopo aver segnato una riduzione del 36% in 9 anni nell’ultimo è tornato a crescere.

«L’Italia vanta sicuramente grandi risultati vista la rilevanza che l’economia circolare ha avuto e ha nel nostro Paese – commenta Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e del Circular economy network – Dobbiamo però impegnarci a tenere alto il livello delle nostre performance. Servono un piano e una strategia nazionale, una regolazione sull’end of waste che permetta ai numerosi progetti industriali in attesa di autorizzazione di partire. Ma serve anche una visione politica e amministrativa che manovri le leve della fiscalità, degli incentivi all’innovazione in favore dell’economia circolare, che va pensata non come un comparto, ma come un vero e proprio cambiamento profondo di modello economico».

Un mutamento che, per avere successo, dovrà giocoforza essere accompagnato da un’evoluzione anche sul piano culturale e comunicativo. Applaudire all’economia circolare non basta: occorrono scelte politiche e industriali coerenti, che chiamano in causa la responsabilità di cittadini e territori. Ad esempio per quanto riguarda la gestione degli scarti da riciclo, che continueranno ad esistere a dispetto di ogni slogan rifiuti zero. «Dobbiamo recuperare o smaltire gli scarti del riciclo della carta, altrimenti non c’è economia circolare – argomenta al proposito Massimo Medugno, direttore generale di Assocarta – Le uniche destinazioni ad oggi disponibili per lo scarto di pulper sono la discarica e il recupero energetico tramite combustione in impianti di termovalorizzazione».

Forme alternative sono state studiate e sperimentate e alcuni progetti di studio sono tuttora in corso, ad esempio nell’ambito del progetto Life EcoPulpPlast e nel progetto del Conai/Cnr, ma «al momento non sono ancora disponibili tecnologie applicate su scala industriale e sostenibili da un punto di vista tecnico, economico e ambientale». Secondo Assocarta dunque oggi il recupero energetico è la soluzione migliore per gestire in maniera ambientalmente ed economicamente sostenibile gli scarti di pulper, ma sul territorio impianti di questo tipo non vengono realizzati: «Questa opzione preferenziale – conclude infatti Medugno – si scontra con l’impossibilità da parte imprese italiane di installare questo tipo di impianti all’interno dei propri siti produttivi e la concomitante mancanza, all’esterno dei siti produttivi, di infrastrutture sufficienti per recuperare energeticamente le quantità di scarto di pulper generate dall’industria del riciclo. Ciò mette in discussione il riciclo della carta e l’economia circolare».