Presentata all’Ecoforum l’indagine Legambiente e Università di Padova
Non è la tecnologia che manca all’economia circolare, ma leggi chiare e prezzi giusti
Ferrante: «Il talento e l’impegno delle nostre imprese migliori ci indicano la strada da battere per uscire dalla crisi, ma fino ad oggi sono sforzi solitari che nessuno è riuscito a mettere a sistema»
[27 Giugno 2018]
Nel corso della prima giornata dell’EcoForum 2018 è stata presentata a Roma un’indagine sulle opportunità di business e di innovazione offerte da economia circolare e industria 4.0, realizzata da Legambiente insieme al Laboratorio manifattura digitale del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova.
Realizzata sulle prime 50 imprese tra le 231 identificate tra quelle manifatturiere (individuate da fonti che spaziano dal rapporto Enel-Symbola “100 storie di economia circolare” al Treno verde di Legambiente) che praticano l’economia circolare, l’indagine mostra che che l’economia circolare offre ampi spazi alle imprese per ripensare il proprio modo di innovare e di competere, attraverso una gestione più efficiente delle risorse, ma anche una maggiore attenzione verso il mercato secondo nuovi modelli di business. In questo percorso un ruolo decisivo lo possono dare le tecnologie ricomprese nell’ambito di Industria 4.0 – dalla manifattura additiva all’Internet delle cose (IoT) –, un’intuizione inizialmente percorsa anche da Governo e Parlamento ma poi trascurata nella definizione del Piano Industria 4.0.
Durante l’Ecoforum, a illustrarne i contenuti dell’indagine è stata direttamente Eleonora Di Maria, dall’Ateneo veneto: dalla ricerca emerge che il principale modello di business praticato dalle aziende prese in esame è legato al recupero delle risorse (per 30 imprese, pari al 61,2%) o alla fornitura di input di natura circolare (15 imprese, 31,6%), anche se le aziende hanno dichiarato di aver investito soprattutto nelle attività di marketing e commerciali (61,7%), ancor prima che nelle attività di ricerca e sviluppo e rinnovo del proprio portafoglio prodotti (47,9%). Questo anche perché le principali motivazioni ad averle spinte a investire nell’economia circolare sono di natura etica e di responsabilità sociale d’impresa (89,6%) ovvero legate al mercato (aumento del valore del prodotto offerto, 81,2%), mentre il principale beneficio conseguito è legato al miglioramento della reputazione aziendale (86,6%).
Del resto anche in quest’occasione l’imprenditore dell’economia circolare appare come un innovatore “solitario” che crea sviluppo in sinergia con gli enti di ricerca, crea lavoro e nuove professionalità, senza godere di un adeguato sostegno economico, normativo e d’impresa.
«L’economia circolare nel nostro Paese è già una realtà in diversi territori grazie al lavoro prezioso di istituzioni, società pubbliche e aziende private virtuose – commenta il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani – Ma per far decollare il settore serve rimuovere gli ostacoli non tecnologici ancora presenti nel nostro Paese. La burocrazia asfissiante, l’inadeguatezza di alcuni enti pubblici, le autorizzazioni sbagliate, i decreti ‘end of waste’ sulle materie prime seconde che non arrivano mai, il mancato consenso sociale per la realizzazione dei fondamentali impianti di riciclo sono questioni che vanno affrontate una volta per tutte per voltare pagina in tutto il territorio nazionale. Solo così riusciremo a mantenere una leadership europea sull’economia circolare conquistata grazie ad alcuni attori visionari e coraggiosi che ora devono essere affiancati da tutti gli altri che ancora non hanno imboccato la strada dell’innovazione e del futuro».
Indicazioni che vengono confermate dall’indagine condotta dall’Università di Padova, secondo la quale le principali difficoltà allo sviluppo dell’economia circolare nel Paese non sono di natura tecnologica, quanto piuttosto legate ad una legislazione inadeguata o contraddittoria (48,9%) oppure connesse al prezzo dei prodotti “circolari” realizzati (48,9%), in cui il mercato spesso non è in grado di riconoscere – e quindi essere disposto a pagare – il reale valore, basato non solo su risorse che sono riutilizzate o riciclate, ma anche ad un vero e proprio processo di innovazione che ne sta alla base: i prodotti riciclati vengono erroneamente percepiti sempre come a basso costo, mentre sono i prodotti “non circolari” che semmai costano troppo poco perché non ricomprendono nel prezzo d’acquisto le maggiori esternalità negative, che impattano su ambiente e salute, e che dunque paghiamo tutti senza averne contezza.
«Il quadro della situazione delle imprese dell’economia circolare che emerge dalla ricerca è paradigmatico della situazione del nostro Paese – conclude il vicepresidente del Kyoto Club, Francesco Ferrante – E non poteva essere diversamente essendo quelle prese in esame le realtà imprenditoriali più dinamiche. Il talento, le capacità innovative, l’impegno sulla responsabilità sociale delle nostre imprese migliori ci indicano la strada da battere per uscire da una crisi troppo lunga. Ma fino ad oggi sono sforzi “solitari” che nessuno è riuscito a “mettere a sistema”, garantendo un quadro normativo a livello nazionale e locale che consenta a questi “campioni” dell’economia circolare di diventare dei veri modelli da seguire per tutti».