Non è un gioco: il lavoro minorile in Italia è diffuso e invisibile
336 mila minorenni tra i 7 e i 15 anni hanno avuto esperienze di lavoro, continuative, saltuarie o occasionali
[5 Aprile 2023]
Nonostante la maggior parte degli Stati abbia ratificato la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e la Convenzione dell’International Labour Organization (ILO) n. 138 (1973), nel mondo il lavoro minorile è ancora molto diffuso. Secondo i dati di ILO e Unicef, «Nel 2020 a livello globale circa 160 milioni di bambine, bambini e adolescenti tra i 7 e i 15 anni hanno lavorato. Di questi, 79 milioni hanno svolto lavori pericolosi, in grado di danneggiare la salute e lo sviluppo psicofisico e morale».
Il nuovo rapporto “Non è un gioco – Indagine sul lavoro minorile in Italia”, di Save the Children stima che «Nel nostro Paese 336 mila minorenni tra i 7 e i 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro, continuative, saltuarie o occasionali – il 6,8% della popolazione di quell’età, quasi 1 minore su 15. Tra i 14-15enni che dichiarano di svolgere o aver svolto un’attività lavorativa, un gruppo consistente (27,8%) ha svolto lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico, perché svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico, oppure svolti in orari notturni o, ancora, perché percepiti dagli stessi intervistati come pericolosi. Dalle stime effettuate si tratta di circa 58mila adolescenti».
I settori più interessati dal lavoro minorile sono: ristorazione (25,9%), vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%), nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o ancora il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche. Nel periodo in cui lavorano, più della metà degli intervistati lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana e circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.
Dall’indagine “Non è un gioco” emerge che in Italia «Quasi un 14-15enne su cinque svolge o ha svolto, un’attività lavorativa prima dell’età legale consentita (16 anni)». L’indagine, condotta a dieci anni di distanza dalla presentazione degli ultimi dati e delle ultime ricerche sul lavoro minorile in Italia da Save the Children, punta a «Definire i contorni del fenomeno, comprenderne le caratteristiche, l’evoluzione nel tempo e le connessioni con la dispersione scolastica, e vuole sopperire almeno parzialmente alla mancanza di una rilevazione sistemica di dati sul tema in Italia».
Save the Children ha indagato anche la relazione tra lavoro e giustizia minorile, mettendo in luce «Un forte legame tra esperienze lavorative troppo precoci e coinvolgimento nel circuito penale. Quasi il 40% dei minori e giovani adulti presi in carico dai Servizi della Giustizia Minorile – più di uno su 3 – ha affermato di aver svolto attività lavorative prima dell’età legale consentita. Tra questi, più di un minore su 10 ha iniziato a lavorare all’età di 11 anni o prima e più del 60% ha svolto attività lavorative dannose per lo sviluppo e il benessere psicofisico».
Claudio Tesauro, presidente di Save the Children, sottolinea che «Per molti ragazzi e ragazze in Italia l’ingresso troppo precoce nel mondo del lavoro, prima dell’età consentita, incide negativamente sulla crescita e sulla continuità educativa, alimentando il fenomeno della dispersione scolastica. Sono ragazzi che rischiano di rimanere ingabbiati nel circolo vizioso della povertà educativa, bloccando di fatto le aspirazioni per il futuro, anche sul piano della formazione e dello sviluppo professionale, con pesanti ricadute anche sull’età adulta».
In Italia la legge stabilisce la possibilità per gli adolescenti di iniziare a lavorare a 16 anni, avendo assolto l’obbligo scolastico. Già secondo un’indagine svolta da Save the Children e Associazione Bruno Trentin nel 2013 «I minorenni tra i 7 e i 15 anni che avevano sperimentato un lavoro prima dell’età legale consentita nel Paese erano circa 340.000, quasi il 7% della popolazione di riferimento». Una seconda ricerca, condotta nel 2014 da Save the Children in collaborazione con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, aveva verificato che «Il 66% degli adolescenti coinvolti nel circuito penale aveva svolto attività lavorative prima dei 16 anni». Il nuovo rapporto evidenzia che «I minori che lavorano prima dell’età legale consentita rischiano di compromettere i loro percorsi educativi e di crescita. Come certifica l’Istat, la quota dei giovani 18-24enni “dispersi”, ovvero che escono dal sistema di istruzione e formazione senza aver conseguito un diploma o una qualifica, nel 2021 era pari al 12,7% del totale, contro una media europea del 9,7%».
Il lavoro minorile può anche influenzare il futut ro dei giovani NEET (Not in Education, Employment, or Training), alimentando la trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione sociale. Sace the Children ricorda che «I ragazzi e le ragazze di età compresa tra 15 e 29 anni in questa situazione in Italia sono più di 1 milione e 500mila nel 2022, il 19 % della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania. La crisi economica e l’aumento della povertà in Italia – sono 1 milione 382 mila i minori che vivono in povertà, il 14,2% del totale – rischiano di far crescere il numero di minori costretti a lavorare prima del tempo, spingendone molti verso le forme di sfruttamento più intense. Tuttavia, la mancanza nel nostro Paese di una rilevazione statistica sistematica sul lavoro minorile non consente di definirne i contorni e intraprendere azioni efficaci di contrasto al fenomeno».
Per questo, Save the Children ha deciso dopo 10 anni di riproporre un’indagine nazionale sul lavoro minorile in Italia «Per contribuire alla riflessione intorno a dati e informazioni, al fine di elaborare misure e interventi efficaci per combattere il lavoro minorile e i fenomeni connessi, come la dispersione scolastica» e dall’indagine è emerso che «Tra i 14-15enni intervistati che lavorano o hanno lavorato durante l’anno precedente la rilevazione, quasi 1 su 3 (29,9%) lo fa durante i giorni di scuola, tra questi il 4,9% salta le lezioni per lavorare». Dai dati si evince che «La percentuale di minori bocciata durante la scuola secondaria di I o di II grado è quasi doppia tra chi ha lavorato prima dei 16 anni rispetto a chi non ha mai lavorato. Più che doppia la percentuale di minori con esperienze lavorative prima dell’età legale consentita che hanno interrotto temporaneamente la scuola secondaria di I o II grado, rispetto ai pari senza esperienze lavorative».
Il 65,4% dei minorenni che hanno sperimentato forme di lavoro sono maschi e il 5,7% ha un background migratorio. Tra i motivi che li spingono i minorenni italiani a intraprendere percorsi di lavoro ci sono: «L’avere soldi per sé (56,3%), la necessità o volontà di offrire un aiuto materiale ai genitori (32,6%); non trascurabile è la quota (38,5%) di chi afferma di lavorare per il piacere di farlo. Il livello di istruzione dei genitori, in particolare della madre, è significativamente associato al lavoro minorile. La percentuale di genitori senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare o media è significativamente più alta tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, un dato che deve far riflettere sulla trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione».
Save the Children ha realizzato anche approfondimenti di stampo qualitativo organizzando 4 focus group in territori ritenuti di particolare interesse: Napoli, Ragusa-Vittoria, Prato e Treviso e dice che «In tutti i territori indagati risulta diffusa la preoccupazione per la dispersione scolastica (anche implicita), in crescita a seguito della pandemia e per la difficoltà del sistema scolastico italiano nel mettere in campo interventi tempestivi, che interessino la didattica in chiave realmente innovativa. L’urgenza di dotarsi di un sistema di monitoraggio del fenomeno è sollevata da più parti, come pure la necessità di immaginare metodi di tracciamento dei percorsi di giovani – specie i minori non più in obbligo – fuoriusciti dal sistema scolastico e difficilmente intercettabili dalla rete dei servizi sul territorio».
Da una peer research svolta a Palermo, Scalea, Roma e Torino da un gruppo di 25 adolescenti tra i 15 e i 21 anni che hanno intervistato loro coetanei sono venuti fuori casi e storie che mostrano la grande eterogeneità del lavoro minorile: «Molti i racconti che parlano di minorenni che combinano la frequenza scolastica con l’attività lavorativa, che in qualche caso è del tutto residuale, non motivata da una necessità economica. In altri casi invece è il lavoro ad avere la meglio sui percorsi scolastici e/o formativi: i ragazzi intervistati testimoniano situazioni di seria urgenza economica e percorsi educativi segnati da insuccessi, senso di estraneità, sfiducia e abbandono, come accade più spesso nei territori segnati da grave deprivazione».
Secondo gli esperti e i testimoni privilegiati che operano nell’ambito dell’educazione, del lavoro e degli affari sociali, le principali cause del lavoro minorile «Sono associate ai contesti familiari e socioeducativi in cui i minori vivono, a partire dalla condizione di povertà ed esclusione sociale. A questo si aggiungono anche la povertà delle risorse educative disponibili e le difficoltà della scuola pubblica nel rispondere ai bisogni educativi di tutti i minori, anche nelle aree più economicamente avanzate».
Tra i minori coinvolti nel circuito della giustizia emerge, tra l’altro, «Un altissimo tasso di dispersione scolastica. Sono frequenti i casi di abbandono precoce della scuola, così come percorsi di insuccesso scolastico che si traducono in elevate assenze e bocciature. In generale, l’esperienza raccontata dai ragazzi, maturata all’interno del sistema scolastico e formativo, è molto negativa. Anche le esperienze lavorative vengono descritte come molto spesso brevi, discontinue e poco professionalizzanti. Si nota pertanto un parallelismo tra quanto hanno maturato nel contesto lavorativo e quanto vissuto in ambito scolastico, ovvero frequenti interruzioni, senso di fallimento, impotenza, inadeguatezza, frustrazione e rabbia. Per questi giovani le esperienze di ingiustizia, vissute dentro al mondo del lavoro in nero in condizioni vessatorie, non hanno fatto altro che avvantaggiare chi cerca manovalanza da reclutare per i propri traffici illeciti. Dall’altro lato, per i ragazzi che transitano nel circuito della giustizia e che hanno lasciato precocemente la scuola per difficoltà o scarso interesse, a volte, lavorare anche se sfruttati, è un modo per tenersi lontano da “cattive amicizie” e dalla commissione di illeciti».
Raffaela Milano, direttrice del Programma Italia-EU di Save the Children, ha evidenziato che «La ricerca mette in luce come molti ragazzi oggi in Italia entrano nel mondo del lavoro dalla porta sbagliata: troppo presto, senza un contratto, nessuna forma di tutela, protezione e conoscenza dei loro diritti e questo incide negativamente sulla loro crescita e sul loro percorso educativo. Il lavoro minorile precoce è infatti l’altra faccia della medaglia della dispersione scolastica. In una stagione di crisi economica e di forte crescita della povertà minorile il rischio è che, in assenza di interventi, il quadro possa ancora peggiorare. Per questo motivo chiediamo un’azione istituzionale coordinata che innanzitutto rilevi in modo sistematico la consistenza del fenomeno nei diversi territori e metta in atto misure volte a prevenirlo. Auspicando la rapida istituzione della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia attualmente in via di approvazione, chiediamo inoltre che la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza – che deve ancora essere ricostituita – promuova una indagine conoscitiva sul lavoro minorile e le sue connessioni con la dispersione scolastica. Allo stesso tempo, è necessario un intervento diretto a partire dai territori più deprivati per rafforzare le reti di monitoraggio, il sostegno ai percorsi educativi e formativi e il contrasto alla povertà economica ed educativa, con un’azione sinergica delle istituzioni e di tutti gli attori sociali ed economici».
Save The Children conclude: «E’ necessario che l’Istituto Nazionale di Statistica realizzi un’indagine sistematica e periodica sul lavoro minorile in Italia, che tenga conto anche del recente fenomeno del lavoro online; che la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza – della quale si attende la nomina in Parlamento – attivi una indagine conoscitiva sul tema; che venga elaborato da parte dei Comuni un Programma Operativo di prevenzione e contrasto del lavoro minorile e della dispersione scolastica che coinvolga tutti gli attori del territorio e che sia assicurato un sistema di presa in carico a livello territoriale dei minori infrasedicenni che lavorano e del loro nucleo familiare, per garantire un percorso di protezione dallo sfruttamento, reinserimento e riorientamento, assicurando anche la formazione del personale preposto all’identificazione e all’assistenza dei minorenni esposti al lavoro minorile; che vengano introdotti piani di sostegno individuale – le doti educative[17] – nell’ambito della revisione delle misure di contrasto alla povertà delle famiglie con figli minori, per una presa in carico personalizzata; che sia promossa, all’interno dei percorsi di educazione civica a partire dalla scuola secondaria di I grado, la formazione di studenti e studentesse sui diritti e la legislazione che regolano il lavoro in Italia; che sia prestata particolare attenzione agli studenti in difficili condizioni economiche facendo in modo che siano chiari tutti i servizi e le opportunità messi a disposizione per garantire il diritto allo studio, dalle borse di studio agli sgravi fiscali; che si utilizzino i fondi del PNRR per lo sviluppo delle competenze trasversali e legate alla transizione digitale e green dei giovani, offrendo percorsi di qualità, prospettive di formazione e specializzazione in settori emergenti».