La presidente della Commissione Ue: «Un modello di crescita basato sui combustibili fossili è semplicemente obsoleto»
Oltre la crescita, un’economia del benessere per affrontare davvero l’Overshoot day
Galli: «Ridurre gli sprechi non peggiorerebbe affatto la qualità della nostra vita, ma permetterebbe di ridurre il nostro impatto sul pianeta»
[15 Maggio 2023]
Come già l’anno scorso, cade oggi l’Overshoot day italiano, ovvero il giorno in cui l’umanità avrebbe già esaurito il budget di risorse naturali per l’intero 2023 se l’intera popolazione mondiale avesse i livelli di consumo degli italiani.
In altre parole, per soddisfare lo stile di vita italiana servirebbero 2,7 pianeti come la Terra, anziché l’unico che abbiamo. Il calcolo, realizzato come sempre dal Global footprint network, è presto fatto confrontando impronta ecologica con la biocapacità.
«L’impronta ecologica – spiega Alessandro Galli, macroecologo e senior scientist del Global footprint network – misura quanta terra biologicamente produttiva è richiesta da una data popolazione (quella italiana in questo caso) per supportare le proprie attività quotidiane, mentre la biocapacità misura quanta capacità di produzione è effettivamente disponibile sul nostro pianeta».
Se l’impronta ecologica supera la biocapacità, come accade oggi, il risultato è che i consumi umani erodono il capitale naturale disponibile sul pianeta, cioè «il vero motore per la rigenerazione delle risorse biologiche, distruggendo intrinsecamente le fondamenta delle nostre economie».
Alla radice del problema c’è un modello economico basato esclusivamente sulla crescita quantitativa: «Crescita della produzione, crescita dei consumi, crescita in generale dei flussi di materia ed energia utilizzati dalla nostra economia che hanno portato ad una conseguente crescita dell’impatto sull’ambiente», sottolinea Galli.
Qualche esempio pratico? «Possiamo andare ad analizzare quali delle attività quotidiane di noi italiani contribuiscono maggiormente alla nostra impronta ecologica. E qui – argomenta Galli – troviamo il settore alimentare e quello dei trasporti. Ovvero, da una parte il modo in cui produciamo, trasportiamo, consumiamo e purtroppo sprechiamo il cibo (responsabile da solo di quasi il 31% dell’impronta media di un italiano) e, dall’altra, il modo in cui ci muoviamo quotidianamente (responsabile per circa il 25% della nostra impronta)».
È evidente che per riportare indietro le lancette dell’Overshoot day non possiamo smettere di spostarci, men che meno di alimentarci. Ma il punto sta piuttosto nel domandarci se produrre sempre più cibo o sempre più automobili sia positivo per il nostro benessere, oltre che per il Prodotto interno lordo (Pil).
Non è sempre così, anzi: livelli di produzione e consumo eccessivi, soprattutto in assenza di adeguate politiche redistributive, minano non solo il capitale naturale ma anche la tenuta della società.
«Ci sono ampie opportunità di intervento – osserva Galli – per ridurre gli sprechi andando quindi a ridurre il nostro impatto sull’ambiente e ad incrementare l’equità sociale attraverso la re-distribuzione delle risorse. Un esempio su tutti: ogni anno si perdono o si sprecano circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. Questo è circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano nel mondo; detto in un altro modo, quasi il 30% della superficie agricola mondiale è utilizzata ogni anno per coltivare cibo che finisce per essere sprecato (equivalente ad un valore di circa 1 trilione di euro). Secondo dati Unep, lo spreco alimentare delle famiglie italiane corrisponde a circa 67 kg a persona (quasi 4 milioni di tonnellate totali se consideriamo che la popolazione italiana è di circa 60 milioni di persone). Ridurre questo spreco non peggiorerebbe affatto la qualità della nostra vita, ma permetterebbe di ridurre il nostro impatto – come italiani – sul pianeta terra, permettendo al contempo di reindirizzare questo cibo a molte delle persone che soffrono la fame (più di 800 milioni di persone)».
La risposta all’Overshoot day sta dunque nel rinunciare ad una crescita economica insostenibile, ma ottenendo al contempo una migliore qualità di vita. Si tratta di un approccio ben radicato nel mondo ambientalista e sempre più sostenuto dalle evidenze scientifiche – è persino banale osservare che una crescita economica infinita non può esistere su un pianeta per definizione finito –, che inizia adesso a farsi largo anche nelle istituzioni europee.
Proprio oggi all’Europarlamento si è alzato il sipario sulla conferenza internazionale Beyond growth 2023. Pathways towards sustainable prosperity in the EU, nata grazie all’impegno di 18 eurodeputati appartenenti a diverse famiglie politiche, insieme al supporto di 60 organizzazioni.
«Riteniamo che l’attuale modello economico, basato sulla crescita infinita, abbia raggiunto i suoi limiti – scrivono gli eurodeputati», snocciolando almeno quattro validi motivi a sostegno di questa tesi: il riscaldamento globale, l’esaurimento delle risorse naturali, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, oltre all’intrinseca instabilità che rende l’attuale modello economico esposto a continue e sempre più gravi crisi (come reso evidente dagli anni che vanno dalla Grande recessione del 2008 alla pandemia).
La necessità è dunque quella di realizzare «un’economia oltre la crescita», ovvero «un sistema economico che dia priorità al benessere umano e alla sostenibilità ecologica rispetto alla crescita del Pil, un sistema che riconosca che la crescita infinita su un pianeta finito è impossibile».
Anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – intervenendo oggi all’apertura della conferenza Beyon growht – si è spinta a dichiarare che «un modello di crescita basato sui combustibili fossili è semplicemente obsoleto».
Ma come supportare, in concreto, un’alternativa percorribile? Attingendo alle proposte arrivate dal mondo accademico, gli eurodeputati propongono di intervenire sull’assetto istituzionale istituendo «una Direzione generale per la sostenibilità e il benessere presso la Commissione europea, una commissione speciale sui Futuri oltre la crescita presso il Parlamento europeo e un ministero per la Transizione economica in ciascuno Stato membro».
Peccato solo che l’Italia stia marciando invece in direzione ostinatamente contraria: il Governo Meloni non solo non si è dotato di un ministero per la Transizione economica, ma ha anche cambiato nome a quello della Transizione ecologica per ancorarlo ad una “Sicurezza energetica” dall’anima fossile.