Pochi investimenti, troppi bloccati: perché le opere pubbliche in Italia sono ferme?
Mattarella: ipertrofia normativa, instabilità della disciplina, procedure elefantiache, bassa professionalizzazione e paura della firma bloccano la capacità di spesa della mano pubblica
[14 Gennaio 2021]
La grande speranza per la ripresa economica post-Covid è che – in carenza di quelli privati – possano tornare a correre gli investimenti pubblici, sotto la spinta dei fondi europei incardinati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma tempo però scorre molta sabbia negli ingranaggi che dovrebbero muovere gli investimenti pubblici italiani. Sia dal lato dei finanziamenti disponibili, sia per quanto riguarda la messa a terra effettiva.
Come argomentano da Irpet, infatti, nell’ultimo quinquennio «gli investimenti pubblici sono stati in media circa 40 miliardi l’anno (cui aggiungere i 20 miliardi di contributi in conto capitale a privati); ben distanti dalla media del quinquennio antecedente il 2008, in cui le cifre (a prezzi attuali) erano rispettivamente 58 e 28 miliardi. Ciò significa che nel corso dell’ultimo decennio lo stock di capitale pubblico si è depauperato, oltretutto in una stagione in cui i danni dei cambiamenti climatici hanno gravato pesantemente sul patrimonio pubblico».
Il grande, ulteriore problema è che non solo i fondi stanziati sono pochi, ma è anche difficile spenderli come testimonia da ultimo la ricerca condotta dal Centro Bachelet della Luiss, in collaborazione con la Conferenza dei Presidenti delle Regioni, con Confindustria e con l’Associazione nazionale costruttori edili. Cos’è che li blocca, dunque? Riportiamo di seguito l’analisi della ricerca proposta da Bernardo Giorgio Mattarella, professore ordinario di Diritto amministrativo presso il dipartimento di Giurisprudenza della Luiss e già Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro della semplificazione e della pubblica amministrazione.
Il dibattito sui contratti pubblici e, in particolare, sulle opere pubbliche, è particolarmente intenso negli ultimi tempi, sia al livello scientifico sia al livello giornalistico. La sua attualità è accresciuta dalla prospettiva del Recovery Plan, che prevedrà molti investimenti infrastrutturali. Questo dibattito, peraltro, non sempre è supportato da dati e non sempre a esso partecipano gli operatori. Per rimediare a questi difetti, il Centro Bachelet della Luiss, in collaborazione con la Conferenza dei Presidenti delle Regioni, con Confindustria e con l’Associazione nazionale costruttori edili, ha avviato una ricerca condotta attraverso la somministrazione di questionari agli operatori dei due versanti: la pubblica amministrazione e le imprese, soprattutto edili.
Hanno risposto al questionario oltre 5.000 funzionari pubblici, che rivestono la qualifica di RUP (responsabile unico del procedimento) e oltre 200 imprese.
La ricerca, quindi, vuole dare voce agli operatori. Si basa, di conseguenza, su opinioni e non su fatti, ma su opinioni molto qualificate. Essa è condotta da un gruppo di studio, composto da Martina Cardone, Monica Dell’Atti, Ginevra Giannattasio e Valentina Marano e coordinato da Antonio La Spina e da chi scrive.
I primi risultati sono stati presentati qualche settimana fa in un webinar dal titolo “Perché in Italia le opere pubbliche sono ferme?”, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti e il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Dall’elaborazione dei questionari e dal webinar sono emerse conclusioni provvisorie, ma di grande interesse.
In primo luogo, vi è negli operatori – sia nelle stazioni appaltanti, sia nelle imprese – una forte sfiducia nella disciplina dei contratti pubblici e nella sua capacità di raggiungere gli obiettivi auspicati in termini di economicità, concorrenza e imparzialità: le norme vengono spesso percepite come fonti di formalità vane e di procedure fini a se stesse. Non ha aiutato il codice dei contratti pubblici del 2016, con la sua carica di gold plating, cioè con i suoi strati di regolazione ulteriori rispetto a quanto richiesto dal recepimento delle direttive europee (difetto, peraltro, imputabile più alla legge delega, sulla cui base esso è stato adottato, che al codice stesso), né sembra aver risolto gran che il decreto “sblocca cantieri” del 2019.
Il principale problema, più ancora dell’ipertrofia normativa, è l’instabilità della disciplina, data dalle frequenti modifiche che costringono le amministrazioni ad adeguare continuamente le procedure e, spesso, a modificare le regole applicabili a procedure già avviate: tendenza aggravata dal frequente ricorso al decreto-legge e dalla recente introduzione di disposizioni temporanee.
Lo scetticismo nei confronti del legislatore non riguarda solo la disciplina dei contratti pubblici, ma anche discipline connesse, come quella della trasparenza e della prevenzione della corruzione: sia tra gli operatori pubblici, sia tra quelli privati, prevale l’opinione che essa induce a privilegiare comportamenti formalistici e ad aggravare adempimenti burocratici.
La sfiducia, peraltro, non è distribuita in modo omogeneo: nel settore pubblico, è decisamente più alta tra i funzionari più anziani che tra quelli più giovani; in quello privato, tra le piccole imprese che tra le grandi. Alla complessità e anche all’instabilità normativa, evidentemente, si fa fronte più facilmente con una preparazione più recente e aggiornata (sul versante pubblico) e con una solida organizzazione aziendale (su quello privato).
Tra i RUP, inoltre, è forte la consapevolezza della necessaria professionalizzazione: la soluzione da essi più gettonata, rispetto al fine di dare una più forte motivazione e una maggiore efficienza ai funzionari pubblici, è quella di una carriera separata, a elevata specializzazione.
La ricerca fornisce indicazioni anche sulla percezione della complessità delle varie fasi della vicenda contrattuale. È ormai noto, anche sulla base di recenti studi della Banca d’Italia e dei rapporti dell’Agenzia per la coesione territoriale, che le procedure di aggiudicazione, cioè di scelta dell’altro contraente, costituiscono la fase più regolata (a cui è in gran parte dedicato il codice dei contratti pubblici) ma anche la più rapida, mentre richiedono molto più tempo le fasi precedenti (la programmazione e soprattutto la progettazione, anche per via del difetto di competenze all’interno delle amministrazioni) e quelle successive (l’esecuzione del contratto e le verifiche su di essa).
Eppure, il legislatore, nell’intento di accelerare l’attività contrattuale, tende a concentrarsi proprio sulle procedure di aggiudicazione, al punto da rinunciare alle gare o da semplificare fin troppo le relative procedure. È da sfatare anche il mito del rallentamento dovuto alle pronunce dei tribunali amministrativi regionali (tar) e del Consiglio di Stato, che a loro volta ineriscono prevalentemente alla fase dell’aggiudicazione: il numero di contratti per i quali i giudici amministrativi sospendono gli effetti è estremamente basso e, comunque, il processo è molto veloce.
Dalla ricerca emerge che l’errore di prospettiva, che induce a concentrarsi soprattutto sulle procedure di aggiudicazione e a sottovalutare la complessità delle altre fasi, è commesso dai funzionari pubblici e, in misura minore, dalle imprese: gli uni e le altre indicano proprio quella di aggiudicazione come fase più critica. Molte imprese, peraltro, indicano piuttosto le fasi di programmazione e di progettazione.
Emergono indicazioni interessanti anche in ordine al fenomeno della c.d. paura della firma, cioè del gioco perverso di incentivi e disincentivi, che fa sì che spesso, per il pubblico funzionario, la condotta più razionale sia quella di non agire, a causa di un sistema di valutazione che non premia adeguatamente l’efficienza e di un sistema di responsabilità che induce a non assumere rischi. Questo fenomeno è indicato tra i principali fattori di lentezza e di inefficienza, però esso è percepito in modo decisamente più forte dalle imprese che dalle amministrazioni.
Per quanto riguarda, infine, le proposte per migliorare l’attività contrattuale della pubblica amministrazione, le stazioni appaltanti suggeriscono soprattutto di investire sul personale: premialità, stipendi, formazione.
Le imprese, invece, chiedono di semplificare e digitalizzare le procedure. Comune è l’enfasi sull’esigenza di migliorare la professionalità dei funzionari pubblici addetti all’attività contrattuale e, soprattutto, di ridurre il numero delle stazioni appaltanti, proseguendo sulla strada della centralizzazione delle committenze e applicando finalmente la disciplina della qualificazione delle stazioni appaltanti.
Ulteriori indicazioni potranno derivare dall’elaborazione dei questionari. Si tratta, come chiarito all’inizio, di opinioni, non necessariamente esatte, che tuttavia andrebbero considerate attentamente da chi disciplina e da chi governa il sistema dei contratti pubblici.
di Bernardo Giorgio Mattarella, Luiss Open