Raccolta differenziata, in Italia il 20% dei rifiuti è da buttare di nuovo
Brandolini (Utilitalia): «L’attività di riciclo non si esaurisce con la sola fase della raccolta, ma necessita di un sistema impiantistico a valle»
[23 Luglio 2020]
Una cattiva informazione ripetuta negli anni ha indotto molti a pensare che, una volta suddivisi in tanti sacchetti tramite la raccolta differenziata, i nostri rifiuti per qualche strano motivo possano sparire, diventare tutti “risorse”, e che non sia più necessario occuparsi dei problemi legati alla loro gestione, recupero e (anche) smaltimento. Naturalmente le cose non stanno così, e a ricordarlo da ultimo sono i risultati di una recente ricerca di Mater, riportati da Filippo Brandolini durante la presentazione del rapporto annuale Comieco.
«Circa il 20% dei rifiuti delle raccolte differenziate sono scarti la maggior parte dei quali (quasi il 90%) recuperabili come energia e per poco più del 10% da smaltire in discarica», spiega il vicepresidente di Utilitalia, ovvero la Federazione che riunisce le aziende attive nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas.
Un risultato che arriva a oltre vent’anni dal decreto Ronchi che ha calato la raccolta differenziata nel contesto italiano, e che conferma quanto rilevato da uno studio Revet condotto in Toscana tre anni fa. In altre parole un quinto delle raccolte differenziate italiane avrebbe essere conferito altrove dai cittadini, è dunque già in partenza irriciclabile e deve essere gestito in altro modo rispetto all’avvio a riciclo: ovvero recupero energetico o discarica. Si tratta di errori che pesano molto a livello di sistema, sia dal punto di vista ambientale sia da quello economico e che finiscono per ricadere sui cittadini stessi, dato che per legge i costi di gestione dei rifiuti urbani devono essere integralmente coperti dalla Tari.
«L’attività di riciclo – osserva nel merito Brandolini – non si esaurisce con la sola fase della raccolta, ma necessita di un sistema impiantistico a valle che prepari il rifiuto per essere riciclato. In assenza di impianti si rischia di vanificare gli sforzi dei gestori nell’organizzare i servizi e dei cittadini nel praticare la raccolta differenziata».
Dunque impianti di selezione, di avvio al riciclo, ma anche di gestione degli scarti. Che naturalmente non sono solo le frazioni estranee contenute nelle nostre raccolte differenziate (che peraltro riguardano solo una minima frazione di tutti i rifiuti che produciamo, ovvero circa il 14% tra rifiuti da imballaggio e organico). Anche l’economia circolare e il riciclo producono rifiuti, in quanto non c’è demagogia che possa proteggerci dal costante aumento dell’entropia cui tutto e tutti sono sottoposti: non a caso in Italia le operazioni di risanamento e trattamento rifiuti rappresentano a loro volta la seconda voce di produzione di rifiuti speciali.
Al proposito Brandolini ha ricordato le stime di Utilitalia per le quali, per raggiungere i target Ue al 2035 per i rifiuti urbani (65% di riciclo e non oltre il 10% di avvio in discarica, mentre in Italia ad oggi siamo rispettivamente a 49% e 22%), sono necessari impianti in grado di trattare oltre 3 milioni di tonnellate di rifiuti organici e impianti di recupero energetico per 2,5 milioni di tonnellate. Quali impianti e dove, di preciso? A rispondere dopo decenni di tentennamenti, si spera, sarà il Programma nazionale rifiuti che l’Italia è chiamata a redigere attraverso il recepimento delle ultime direttive Ue sull’economia circolare.
Nel frattempo sappiamo già che per migliorare la gestione integrata dei rifiuti che produciamo è necessario rafforzare in primis gli step prioritari della gerarchia europea, ovvero prevenzione, riuso e riciclo. «Trattandosi di economia circolare non bastano target ambientali – conclude Brandolini – ma occorrono misure normative ed economiche per sostenere il valore delle materie prime seconde». In quest’ottica «è importante il sistema della responsabilità estesa del produttore, ma sono fondamentali anche incentivi per l’utilizzo delle materie prime seconde come il Green Public Procurement, o contenuti minimi obbligatori di materie prime seconde per la produzione di nuovi materiali o imballaggi».