Sono 248mila i giovani italiani emigrati in 10 anni, e con loro 16 miliardi di euro
Ogni anno vediamo partire oltre novantamila under 35, eppure ci preoccupiamo dei migranti che arrivano (dai quali dipende il 9% della ricchezza nazionale)
[8 Ottobre 2019]
Non c’è peggior fumo negli occhi per i sovranisti italiani dei migranti economici, ovvero quelli che non scappano da guerre e persecuzioni ma che si spostano “solo” per cercare condizioni di vita migliori: in Italia non li vogliono, ci “rubano il lavoro” e chissà cos’altro, e il loro rifiuto sembra diventata la prima emergenza del Paese. Eppure il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, edito da il Mulino e presentato oggi alla presidenza del Consiglio dei ministri, descrive un allarme di segno opposto. Quello dei migranti economici italiani, che se ne vanno dall’Italia in cerca di un futuro migliore.
Il saldo tra partenze e rimpatri mostra che negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso 500.000 concittadini, e ad andarsene sono soprattutto i più giovani, i più istruiti e pronti al lavoro: 248mila ragazze e ragazzi dai 15 ai 34 anni hanno fatto le valige nell’ultimo decennio, contribuendo al sempre più marcato squilibrio demografico di un Paese dove i figli diminuiscono e gli anziani crescono, tanto che di qui a 20 anni, l’Istat stima che gli over 65 saranno il 31,3% dell’intera popolazione. Nel mentre la fuga dei giovani, oltre al capitale umano perso, ha comportato la rinuncia a 16 miliardi di euro, il valore aggiunto che avrebbero potuto dare all’economia italiana.
Il tutto nell’indifferenza pressoché generale, dove un’emergenza che non esiste – quella dell’invasione dall’estero, mentre gli arrivi sono in calo da anni – ne ha soppiantato una reale. Come mostra il recente sondaggio Perils of perception (Ipsos) gli italiani pensano che gli under14 siano il 26% (invece sono circa il 14%), e al contempo credono che gli immigrati siano il 26% della popolazione (e invece sono circa il 9%). Una «vera e propria disinformazione», come la definì l’anno scorso l’ex presidente Inps Tito Boeri, che adesso ci presenta il conto.
I motivi che spingono i giovani italiani verso quest’esodo silenzioso sono molti, ma per intuirne le radici basta dare un’occhiata agli indici sul lavoro e a quelli sulla disuguaglianza. «In Italia la condizione occupazionale dei giovani è drammatica – sottolineano dalla Fondazione Leone Moressa – Nella fascia tra 25 e 29 anni il tasso di occupazione è del 54,6%, oltre 20 punti in meno rispetto alla media dell’Unione europea, mentre la disoccupazione per la stessa fascia d’età è al 19,7%, contro il 9,2% di media Ue. Per questo ogni anno vediamo partire oltre novantamila under 35, molti dei quali senza buone prospettive di rientro». La destinazione è sempre più spesso il Regno Unito della Brexit, seguito da Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Brasile e Usa.
Anche perche negli anni della crisi economica in Italia sono stati in assoluto i giovani i più penalizzati. La ricchezza media delle famiglie con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni è ora meno della metà di quella del 1995, mentre quella delle famiglie con capofamiglia con almeno 65 anni è aumentata di circa il 60%, con il risultato che quasi la metà dei poveri italiani è oggi under34. Se le condizioni per restare sono queste, ovvio che emigrare sia tornata ad essere un’opzione sempre più gettonata.
Di fronte a questi numeri bloccare l’immigrazione non sarebbe utile, ma controproducente. Azzerando l’immigrazione perderemmo altre 700.000 persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura, e sicuramente una bella fetta della nostra economia: «La ricchezza prodotta dai lavoratori immigrati regolarmente presenti in Italia – precisano nel merito dalla Fondazione – è stimabile in 139 miliardi di euro, ovvero il 9% della ricchezza nazionale».
Nel 2018 i lavoratori stranieri erano 2,5 milioni, pari al 10,6% degli occupati totali, ma non ci “rubano il lavoro”, anzi spesso svolge mansioni che gli italiani non vogliono fare non fosse altro per la bassa remunerazione: un terzo degli occupati stranieri (33,3%) si concentra nelle professioni non qualificate, mentre appena il 7,6% svolge mansioni qualificate, con il restante 60% si divide pressoché equamente tra operai, artigiani, commercianti e impiegati; non a caso nei settori più “manuali” come l’agricoltura e le costruzioni è in calo il numero di occupati italiani (-1,1% e -1,3% rispettivamente) mentre è in netta crescita quello degli stranieri (+6,1% e +2,9%).
Il problema semmai, per gli italiani come per gli stranieri, è che il nostro Paese non riesce ad attrarre occupati nelle mansioni a più alto valore aggiunto; così i giovani più qualificati se ne vanno, e qui arrivano altri migranti economici ma con basse qualifiche. Si tratta di un problema enorme, che incrocia l’istruzione all’esigenza di una politica industriale in termini di sviluppo sostenibile: un tema troppo complicato per impostarlo in termini di propaganda, ma che prima o poi richiederà di essere affrontato.