Bolivia, riuscito il golpe del litio: Evo Morales fugge in Messico e riceve asilo politico
L’incredibile suicidio della sinistra boliviana che consegna il potere alla destra neoliberista
[12 Novembre 2019]
Dopo il golpe militare post-elettorale e gli scontri di piazza tra sostenitori e oppositori del presidente boliviano Evo Morales – dichiaratosi vincitore e al primo turno con un risultato non riconosciuto dall’opposizione di destra – ieri Morales è salito su un aereo per auto-esiliarsi in Messico, dove ha chiesto e ricevuto asilo politico.
Morales ha voluto evitare quello che si annunciava un bagno di sangue e nel suo messaggio di addio al suo popolo e ai suoi sostenitori scrive: «Fratelli e Sorelle, parto per il Messico, grato per l’accoglienza del governo di questo popolo fratello che ci ha dato asilo per difendere la nostra vita. Mi duole abbandonare il Paese per ragioni politiche, ma sarò sempre presente. Pronto a tornare con più forza ed energia».
Il ministro degli esteri del Messico, Marcelo Ebrard, ha confermato l’arrivo di Morales con un aereo messogli a disposizione dal governo messicano e ha ricordato che «Il Messico si è caratterizzato nel corso della sua storia per la sua tradizione nel campo della protezione dell’asilo. Si è dimostrato uno Stato inclusivo e solidale le cui porte sono aperte a coloro che hanno avuto e hanno bisogno di lasciare i loro Paesi».
Il protagonista di quello che in molti hanno già chiamato “il Golpe del litio”, il comandante in capo della Fuerzas Armadas de Bolivia, Williams Kaliman, ieri aveva annunciato il dispiegamento di azioni congiunte con la polizia – la prima ad ammutinarsi – contro chi si è mobilitato per respingere il colpo di Stato: «Di fronte agi atti vandalici impiegheremo la forza in forma proporzionata. Facciamo appello alla calma e alla pace (..) Ricordando alla popolazione che mai le Fuerzas Armadas apritranno il fuoco contro di lei».
Una dichiarazione che risponde alla richiesta della vicepresidente del Senato, Jeanine Áñe (che si è autocandidata ad assumere la presidenza della Repubblica), che aveva praticamente intimato ai militari di unirsi alla Policía Nacional per «Controllare le orde dei masistas», cioè i militanti e simpatizzanti del Movimiento Al Socialismo (MAS) di Morales che chiedevano il rispetto del contestato voto elettorale.
Ma le manifestazioni contro il golpe continuano, come a El Alto, nonostante la repressione della polizia che si era ritirata nelle caserme per non ubbidire all’ordine di Morales di bloccare le proteste violente della destra e che ne è uscita per scagliarsi con le armi – spesso insieme a gruppi di destra – contro i manifestanti anti-golpe di sinistra.
Probabilmente l’autoesilio di Morales è una scelta saggia che fa seguito a una serie di scelte sbagliate che hanno portato alla fine del socialismo indigeno boliviano e al ritorno al potere di una destra e dei militari che avevano trasformato la Bolivia nel Paese più povero e repressivo del Sud America. La stessa Áñe, bionda, bianca e che veste abiti firmati, rappresenta anche fisicamente la rivincita della vecchia destra contro gli indios che avevano avuto l’ardire di prendere il potere e di cambiare la Costituzione. Per questo anche Donald Trump festeggia il golpe ed è sicuro che con il ritorno della destra neoliberista e fascistoide al potere gli Usa torneranno a mettere le mani sulle risorse della Bolivia e soprattutto sul litio che, come ricordava solo qualche mese fa l’ormai ex presidente della Bolivia Álvaro García Linera, «Con l’incremento dell’industria dello sfruttamento del litio nei salares di Pastos Grandes y Uyuni (Potosí) e Coipasa (Oruro), questa nazione diventerà la prima potenza di esportazione di questo metallo. Questo rivoluzionerà il mondo scientifico boliviano, rivoluzionerà l’industria boliviana, le entrate della Bolivia, questo non è un sogno, abbiamo appena iniziato». Ma il sogno di una Bolivia socialista e indigena che tenesse nelle sue mani uno dei motori della nuova green economy mondiale è stato spezzato e non solo per colpa della destra e di Trump.
Gli errori fatti da Morales e dal MAS in questi ultimi anni e mesi sono così tanti da sembrare incredibili: intanto la contestata scelta di Morales di voler caparbiamente cercare il quarto mandato presidenziale cambiando la costituzione ignorando sia un referendum che l’opposizione anche di parte della sinistra. Poi la repressione contro parte delle popolazioni indios – la sua base elettorale – che si opponevano a progetti infrastrutturali e minerari/energetici con forti impatti sui loro territori. Ma quello che appare più incredibile, fino al suicidio politico, è una gestione di una campagna elettorale che nei sondaggi iniziali indipendenti vedeva Morales facile vincitore al primo turno e che si è impantanata nella mancata gestione ed allarme per i giganteschi incendi appiccati nell’Amazzonia boliviana. Una minimizzazione probabilmente voluta per non acuire lo scontro con la destra – egemone nei territori colpiti – e che ha finito paradossalmente per favorire gli incendiari (come in Brasile i grossi proprietari agricoli), erodendo progressivamente il consenso e la credibilità di Morales che si fondava anche sulla difesa delle risorse naturali boliviane e per una radicale visione antimperialista della lotta al riscaldamento climatico.
Il finale è degno di una tragicommedia: l’uomo che ha restituito la Bolivia alla democrazia e che ha portato al potere gli indios trasformando la Bolivia in uno s Stato Plurinazionale, è sicuramente arrivato primo alle ultime elezioni presidenziali, distaccando il candidato della destra, ma il MAS ha quasi certamente fatto dei brogli per farlo vincere al primo turno superando il 40%. Probabilmente Morales avrebbe vinto al secondo turno recuperando l’opposizione di sinistra al suo governo e le comunità indigene più arrabbiate con lui, invece con il suo atteggiamento inizialmente intransigente ha scatenato un golpe che era evidentemente in standby e che è scattato come un meccanismo ad orologeria. Morales si è stranamente fidato dell’esercito boliviano, credendo che il giuramento di fedeltà alla Costituzione socialista/ambientalista/indigenista avesse definitivamente messo fine alla tradizione golpista e fascista delle Forze Armate che posero fine alla vita di Ernesto Che Guevara. Ma i capi militari, addestrati a Washington e da sempre in buoni rapporti con la destra, lo hanno tradito non appena gliene ha dato l’occasione. D’altronde, era abbastanza improbabile che gli Usa e le multinazionali lasciassero in piedi il “cattivo esempio” di un Paese che voleva nazionalizzare il litio e che aveva nazionalizzato tutte le altre risorse minerarie e gasiere, pur mantenendone in molti casi una gestione pubblico/privata.
Il problema è che il golpe in Bolivia chiude l’esperienza del socialismo indios ma rischia di aprire uno scontro che è già tracimato in Cile, dove la rivolta di popolo che sta riempiendo le piazze è proprio contro una classe dirigente che si è riempita le tasche svendendo le risorse del Paese e che è socialmente la copia esatta – solo un po’ più democraticamente raffinata – della destra golpista boliviana.
Il problema è che l’alternativa a una sinistra in crisi in America Latina è una destra illiberale, con nostalgie fascistoidi e comunque formata da estremisti neoliberisti che quando arriva al potere è incapace di gestirlo, come in Argentina, Brasile, in Colombia, in Perù e nello stesso Cile, per non parlare del Venezuela dove non è nemmeno riuscita a defenestrare il debole e screditato governo bolivarista di Maduro ma che con il suo avventurismo ha contribuito a gettare quel Paese nel caos, nella miseria e nell’emigrazione di massa. Una destra molto spesso corrotta fino alla cleptomania e che segue vecchie ricette e fedeltà assolute verso gli Usa e a una concezione del mondo rimasta ferma alla guerra fredda.
Mentre la sinistra latinoamericana non sa liberarsi del suo caudillismo, del mito dell’uomo saggio e forte che governa un popolo minorenne, non ancora pronto per la piena autodeterminazione.
E in Bolivia l’ennesimo golpe probabilmente acuirà le divisioni, anche perché sarà difficile tornare indietro dalle conquiste sociali ed economiche frutto dei governi Morales e dall’autonomia indigena disprezzata da una destra che ha quasi tutti leader “bianchi” che spesso non nascondono il loro razzismo anti-indios. L’uscita di scena di Morales per evitare un bagno di sangue al suo popolo probabilmente sopirà la rivolta dei suoi sostenitori, ma – come dimostrano il Cile e l’Argentina e il Brasile con la liberazione di Lula – in America Latina niente è definitivo e chi ha assaggiato la democrazia difficilmente accetterà ritorni indietro e maggiore disuguaglianza.