Burkina Faso, il Qatar (e gli altri) dietro l’islamizzazione radicale

La strage di Ouagadougou fa parte di un disegno per destabilizzare la rinata democrazia

[19 Gennaio 2016]

Secondo Mondafrique   il Qatar,il ricchissimo emirato petrolifero sunnita, alleato e armato dagli occidentali e  che ospiterà i mondiali di calcio del 2020,  sarebbe all’origine dell’islamizzazione radicale di massa della popolazione del Burkina Faso e il tutto avverrebbe sotto la copertura dell’aiuto umanitario ad uno dei Paesi più poveri del mondo e che per decenni è stato ostaggio di una dittatura che aveva i suoi protettori ed amici in Francia, Usa ed Italia..

A pochi giorni dall’attacco terroristico del 15 gennaio ad Ouagadougou, che ha fatto 29 vittime, tra le quali anche un bambino italiano, «Gli sguardi si  rivolgono al Qatar – scrive Mondafrique –  questo amico che ci vuole male e che oggi è sospettato di aver imposto la radicalizzazione dell’islam in Burkina Faso».

Nel 2o13  sono partite dal Qatar verso il Burkina Faso ben 722 missioni “umanitarie” e «Forti di questa manna insperata, delle ONG qatariane si sono dedicate a seminare i germi dell’islam radicale. Dei predicatori sono venuti dal Qatar e dal Pakistan, sono state create delle scuole coraniche ed istituiti dei centri di beneficienza». Il giornale spiega che «Le azioni umanitarie dei quatariani che servono da cavallo di Troia  per l’islam radicale sono concentrate nelle zone di frontiera tra il Mali, dove un islam retrogrado è finanziato anche lì dal denaro del Golfo, e il Burkina». E’ da questo avamposto saheliano dell’islam wahabita che sarebbero entrati i giovanissimi jihadisti che hanno compiuto la strage di Ouagadougou e di altre azioni terroristiche che sono sempre più frequenti in Burkina Faso dopo la rivoluzione democratica e progressista  che ha liberato il Paese  dall’eterna dittatura cleptocratica di Blaise Compaoré.

Sempre su Mondafrique, Thalia Bayle, un’esperta di politica internazionale Africana, ricorda che il rapporto “Burkina Faso: transition acte II”, del think tank International Crisis Group (ICG) aveva denunciato già nell’aprile 2015 «La degradazione del contesto della sicurezza in Burkina, al centro di una regione minata dai gruppi jihadisti» e «L’insicurezza, soprattutto alle frontiere ovest e nord del Burkina, che costeggiano un Mali in guerra, si è aggravata da qualche mese». Dopo la caduta di Compaoré ci sono stati diversi attacchi nel nord del Burkina Faso  e probabilmente c’è stata una saldatura tra l’islamismo jihadista e alcuni settori militari fedeli all’ex dittatore che avevano anche tentato di tornare al potere con un golpe fallito.

Secondo il rapporto ICG, «Che esista a o meno una volontà dell’ancien régime di destabilizzare il Paese, dei gruppi ribelli, jihadistes o semplicemente dei banditi, possono approfittare della fragilità politica del Paese per infilarsi nella breccia». Una breccia tenuta aperta con i finanziamenti che arrivano dal Golfo e che hanno reso il Sahel e la Libia una gigantesca polveriera continuamente alimentata dagli odi etnici, tribali e settari.

Così la rivoluzione civile sankarista e l’esercito fortemente politicizzato del Burkina Faso possono diventare il principale nemico, l’esempio pericoloso da abbattere da parte di che sogna un califfato nero islamista che ha le sue radici ideologiche e finanziarie nelle monarchie assolute sunnite del Golfo.

Al  confine meridionale il nuovo governo del Burkina Faso se la deve vedere con un vicino non meno pericoloso e destabilizzante: la Costa d’Avorio, sospettata di complicità con il golpe del settembre 2015, e che ha concesso la cittadinanza a Blaise Compaoré, per sottrarlo alla giustizia burkinabè che chiedeva al governo di Abidjan – arrivato al potere dopo un intervento francese ed Onu – di estradarlo.

Le registrazioni di una telefonata tra l’ex n ministro degli esteri burkinabè Djibril Bassolé e il presidente dell’Assemblée nationale ivoriana Guillaume Soro, confermano il loro coinvolgimento nel putsch del settembre 2015 ed hanno avvelenato i rapporti già tesi tra Burkina Faso e Costa d’Avorio, che condividono una lunga frontiera lungo la quale si sono rifugiati molti dei capi dei pretoriani del disciolto Régiment de sécurité présidentielle  di Compaorè.

Il giornale Burknabè Le Pays ricorda che «La carneficina di Ougadougou è stata rivendicata da Al Mourabitoun, un movimento armato affiliato ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi)». Mentre il rapimento di due coniugi australiani avvenuto a Djibo «è opera dell’Emirato del Sahara, un gruppo jihadista maliano, a sua volta succursale di Aqmi. Questi terribili eventi hanno aperto gli occhi dei burkinabè sulla vulnerabilità del loro Paese di fronte alla follia omicida della galassia terrorista e, più in particolare, dei movimenti jihadisti che, dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011, furoreggiano praticamente in tutta la regione sahelo-sahariana, avendo come epicentro il nord del Mali».

L’immagine – già falsa ai tempi della dittatura – di un Burkina Faso isola di pace mentre tutto intorno si scatenava la furia jihadista non esiste e  non regge più e Le Pays scrive: «Le due grandi domande che uno si potrebbe fare sono le seguenti: perché anche il Burkina Faso è stato colpito così duramente e perché ora?» e risponde: «oggi il paese non si è ancora ripreso dall’instabilità del periodo di transizione, tanto che – nonostante l’elezione di Roch Marc Christian Kaboré – non tutti i gangli dell’apparato statale sono ancora in grado di funzionare a pieno regime. Un simile contesto aumenta l’instabilità del paese. Il secondo elemento è relativo alla caduta di Compaoré. Quest’ultimo, durante tutto il periodo in cui è rimasto al potere, aveva offerto riparo e copertura nel paese a molti terroristi. A ciò si aggiunge il fatto che i negoziati per la liberazione degli ostaggi in mano ai terroristi erano diventati un vero e proprio giro d’affari che faceva la fortuna dei notabili del vecchio regime e di alcuni di questi terroristi. La caduta del loro gansoba (”tutore”, nella lingua nazionale moré) Compaoré potrebbe quindi aver significato per loro la rinuncia alla gallina dalle uova d’oro. Da questo nasce il loro odio ormai manifesto nei confronti del paese e dei suoi nuovi dirigenti. Da questo punto di vista, si può dire che il paese paga il prezzo dei compromessi del regime di Blaise Compaoré con la galassia jihadista».

Prima o poi il doppiogiochismo di Compaorè, alleato fedelissimo degli occidentali e in affari con i jihadisti, fatto passare per grande mediatore anche in Italia, dovevano crollare sotto il peso del loro ipocrita equilibrismo. Dopo la strage di Ouagadougou, il Mouvement du peuple pour le progrès ha denunciato le responsabilità del clan Compaoré, «Non va quindi scartata l’ipotesi di un’azione di destabilizzazione del nuovo regime – scrive Le Pays  – pianificata da lungo tempo, da parte di Compaoré che ha potuto contare sulla mano dei jihadisti e sul sostegno di alcune personalità politiche della sottoregione. Ciò detto, è probabile che questi attacchi, al di là delle vittime provocate, bloccheranno il rilancio dell’economia promesso dalle nuove autorità e dissuaderanno molti investitori che avevano visto nella normalizzazione politica del paese un’opportunità di fare buoni affari. Se così fosse, i terroristi si fregherebbero le mani. In quest’ottica il nuovo governo non dovrà limitarsi a reagire ma dovrà, per esempio, prendere delle misure offensive, d’accordo coi paesi partner e i vicini e puntare sia sulla sicurezza sia sulla prevenzione. Nel frattempo i burkinabè devono arrendersi al fatto che sarà necessario convivere con la minaccia terroristica, senza per questo dare l’impressione di rassegnarvisi. E per farlo sarà necessario ricorrere alla cultura del senso civico e della vigilanza a tutti i livelli. La posta in gioco è la difesa di una casa comune, ovvero il Burkina Faso. E nessuno deve tirarsi indietro».