Le esportazioni shale gas americano non potranno sostituire il gas russo
Ecco perché la nuova guerra fredda non si combatterà col gas esportato in Ue
[27 Marzo 2014]
Il tour europeo di Barack Obama nel bel mezzo della crisi ucraina (nella quale gli Usa hanno svolto e stanno svolgendo un ruolo sempre più evidente) sottolinea una nuova attenzione per la vecchia Europa, data solo pochi mesi fa per un’area ormai marginale nella nuova geopolitica mondiale.
Il presidente americano punta a rafforzare, anche economicamente ed in modo non sempre vantaggioso per l’Unione europea, l’alleanza transatlantica ed approfitta dell’annessione della Crimea per mostrare al mondo il nuovo ruolo di potenza energetica degli Usa, che da importatori diventano esportatori, che promettono all’Europa di farsi carico (naturalmente non gratis) delle eventuali conseguenze di una guerra del gas con Mosca. Vanno viste anche sotto questa luce le voci di un possibile ripensamento delle compagnie straniere, Eni in testa, sul colossale progetto di South Stream che, proprio passando sotto il Mar Nero dovrebbe portare altro gas russo e dell’Asia centrale nelle cucine e nelle centrali elettriche dell’Ue, Italia compresa.
Obama, sembra aver ceduto alla campagna che i repubblicani e le Big Oil hanno scatenato non appena la Crimea si è dichiarata indipendente: non sanzioni inefficaci contro la Russia ma esportare lo shale gas, frutto del pericoloso “miracolo” del fracking, invece che consumarlo solo negli Usa per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili esteri.
Al netto della propaganda (che in queste ore abbonda da ambo le parti), la produzione di shale gas negli Usa è ancora nella fase del boom, ma le crescenti proteste ambientaliste e delle comunità locali stanno facendo aumentare i costi soprattutto per quanto o riguarda il trattamento delle acque inquinate dalla miscela chimica utilizzata nel fracking. Però la differenza di prezzo con il gas del mercato europeo è ancora così grande che le pressioni delle multinazionali per esportare Gnl made in Usa via nave sono crescenti e le Big Oil pensano già ad utilizzare una rete strategica di rigassificatori lungo le coste europee. Insomma, si scommette sulla nuova guerra fredda del gas e si fa finta di non vedere che questo scenario energetico/strategico rende ancora più dolorosamente vergognose le inutili guerre per l’energia in Iraq, Afghanistan e Libia (e Siria) che, dopo aver monopolizzato le prime pagine dei giornali e telegiornali per anni, ora sembrano scomparse, mentre la gente continua a morire più di prima per ragioni che evidentemente lo shale gas ha reso (momentaneamente) incomprensibili.
Fino ad ora, la scelta dell’amministrazione Obama era stata quella di utilizzare quasi ovunque la contestata tecnica del fracking per estrarre gas da utilizzare sul mercato interno, a prezzi molto bassi, per sostituire le inquinantissime ed obsolete centrali a carbone per la produzione di energia elettrica ed incentivare (ed a far ritornare in patria) tutte le produzioni industriali “energy intensive” che hanno contribuito a far uscire gli Usa dalla crisi. Se la guerra fredda del gas dovesse continuare probabilmente la Russia troverà un altro mercato pronto a fare lo stesso con il suo gas: l’inquinantissima Cina che ha bisogno di ridurre il consumo di carbone se non vuole finire soffocata dalla sua stessa crescita.
Obama punta sull’effetto annuncio ed a spaventare lo Stato/mercato/energetico messo in piedi da Vladimir Putin. Su questa linea si sono schierati i più filo-americani tra i Paesi dell’Ue, quelli ex-comunisti dell’Europa orientale, il “Gruppo di Visegrád” (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, e Slovacchia), che stanno facendo lobbyng per convincere il Congresso Usa ad aprire alle esportazioni del gas americano verso i loro Paesi, per diminuire la loro dipendenza dal gas russo.
Ma tutto questo è realistico o è una fesseria, come ha brutalmente detto l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt a Die Zeit parlando delle sanzioni e delle minacce commerciali occidentali contro la Russia?
Una lettura illuminante dell’intera vicenda è quella fatta da Mike Orcut su Mit Technology Rewiev, il giornale online del prestigiosissimo Massachusetts Institute of Technology (Mit). Orcut sgombra subito il campo dalla propaganda e dalle blandizie (e dalle minacce) politiche che vengono sparse a piene mani in questi giorni:
«I numeri nelle esportazioni di gas naturale in Europa mostrano la semplicità dell’argomento in questione. La Russia domina il mercato, e a prescindere dalla rapidità del processo di approvazione, serviranno anni e decine di miliardi in investimenti da parte degli Stati Uniti per raggiungere le esportazioni della Russia». Ed i numeri sono questi: nel 2012 i gasdotti russi fornivano il 34% del gas venduto all’Ue da Paesi non europei; Paesi come la Bulgaria, la Lituania e la Repubblica Ceca dipendono dal gas russo per più dell’80%; Circa l’80% del gas esportato verso l’Ue viaggia attraverso gasdotti, il resto è gas naturale liquefatto (Gnl) che arriva con gasiere.
Orcut spiega quale è il problema per poter far avverare la promessa di Obama di un nuovo paradiso del gas naturale americano in Europa in sostituzione dell’inferno russo (che non sostituirebbe ma cambierebbe una dipendenza alla quale molti, a cominciare da Scaroni e Berlusconi, si erano adeguati più che volentieri), «Il gas naturale esportato dagli Stati Uniti verso l’Europa dev’essere liquefatto presso i terminali di esportazione, un processo costoso che comporta il raffreddamento del gas per ridurne considerevolmente il volume. Ad oggi, gli Stati Uniti dispongono di un solo terminale per l’esportazione del gas naturale liquefatto, situato in Alaska, dove il gas viene liquefatto per poi essere spedito in Giappone. Gli Stati Uniti esportano già una piccola quantità di Gnl verso l’Europa. Nel 2012 hanno inviato 0,1 miliardi di m3, una quantità troppo piccola per comparire in un grafico. Le società che desiderano esportare Gnl devono richiedere l’autorizzazione al Dipartimento per l’energia e alla Federal energy regulatory commission. Le applicazioni per vendere a Paesi senza un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, che includono diversi Paesi europei, sono soggette ad un maggiore scrutinio, il che può portare a un prolungamento del processo di approvazione».
Se i problemi politici potrebbero essere risolti dall’accordo di libero scambio in discussione tra Usa ed Ue, velocizzando così anche l’iter dei permessi negli Usa, Obama si troverà però a fare i conti con una notevole parte dell’elettorato democratico, a cominciare da grosse associazioni ambientaliste come Sierra Club, Nrdc, Greenpeace e Wwf che vedono come fumo negli occhi il fracking e l’esportazione di shale gas Usa all’estero, che giustificherebbe ulteriori disastri ambientali e concederebbe alle multinazionali un ruolo ancora più strategico, non solo nel determinare la politica energetica interna degli Usa, ma anche la politica estera, facendo del gas di scisto la nuova arma della nova guerra fredda contro i russi.
Rimangono poi giganteschi problemi tecnici che Orcut mette impietosamente in fila: «Finora, sono stati approvati cinque nuovi impianti di liquefazione, capaci di esportare un totale di 240 milioni di m3 al giorno. Solo uno di questi impianti, però, situato sul Golfo del Messico, è in via di costruzione. La società responsabile mira a spedire 78 milioni di m3 al giorno entro il 2015. Questo risultato non basterà a recuperare abbastanza terreno sulla Russia, che in un solo giorno, questo mese, ha spedito 505 milioni di m3 di gas naturale in Europa. Al momento, altri 25 impianti sono in attesa di approvazione. Nel caso fossero tutti approvati, la capacità di esportazione degli Stati Uniti si incrementerà a quasi 850 milioni di m3 al giorno. Questi terminal, però, richiederanno diversi anni per essere ultimati e la loro approvazione non garantirà comunque che saranno costruiti, dati gli immensi costi coinvolti. Otto dei progetti proposti aggiungerebbero un impianto di liquefazione a un terminal di importazione di Gnl (gli Stati Uniti dispongono di 12 terminal del genere) a un costo che, secondo il Congressional Research Service, dovrebbe aggirarsi intorno ai 6 – 10 miliardi l’uno. I restanti progetti comportano la realizzazione di impianti nuovi, ciascuno dei quali potrebbe arrivare a costare fino a 20 miliardi».
Insomma, la guerra fredda del gas non solo sarebbe molto lenta, permettendo intanto a Putin di “girare” le sue tubazioni in direzione Pechino mentre continua ad esportare nell’Ue, ma sarebbe anche molto costosa. Se poi ci si aggiunge che molti esperti dicono che il boom dello shale gas è destinato ad afflosciarsi abbastanza presto, si capisce quanto il risultato di questa guerra energetica possa somigliare a quelle precedenti, sperando che non si trasformi in una guerra calda che farebbe sembrare Iraq, Libia ed Afghanistan uno scherzo.