Altissimi rischi ambientali per quantitativi di petrolio risibili
Per un pugno di taniche: a rischio petrolio 24.000 km2 di mare italiano
Il caso Sicilia: il 62% del petrolio offshore nazionale viene dal Canale di Sicilia
[17 Luglio 2013]
Secondo il dossier “Per un pugno di taniche – La corsa al petrolio nel mare italiano” presentato oggi da Goletta Verde di Legambiente, «è corsa all’oro nero nel mare e del sottosuolo italiano: 24mila chilometri quadrati, un’area grande come la Sardegna, è sotto scacco delle compagnie petrolifere. Un fermento per le attività petrolifere favorito da scellerata strategia energetica nazionale che punta al rilancio della produzione di idrocarburi e in particolare da norme, come l’articolo 35 del decreto sviluppo, approvato il 26 giugno 2012, che hanno riaperto la strada alle attività anche nelle aree sotto costa e di maggior pregio».
Nel 2012, in Italia, si sono estratti 5,4 milioni di tonnellate, il 2,5% in più rispetto all’anno precedente, di cui 473mila in mare. Il contributo maggiore viene dalla Basilicata con oltre il 75% del petrolio estratto. In mare, invece, le regioni petrolifere più attive sono l’Adriatico centro meridionale e il canale di Sicilia, dove ci sono 10 piattaforme attive in concessione su 1.786 km2 di mare.
Le aree interessate da richieste per la ricerca e la coltivazione di giacimenti e dalle attività di ricerca, dove in futuro potrebbero sorgere nuove piattaforme, sono molte di più: 7 richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 km2 individuati;14 permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 km2; 32 richieste di ricerca di idrocarburi su 15.574 km2 di mare non ancora rilasciate ma in attesa di valutazione e autorizzazione da parte dei Ministeri dell’ambiente e dello sviluppo economico.
«In definitiva – si legge nel dossier – tra le aree dove insistono le piattaforme attive, quelle su cui è stato richiesto il permesso per sfruttare nuovi giacimenti, quelle in cui sono in atto attività di ricerca e quelle in cui si vorrebbero cominciare, l’area sotto scacco delle compagnie petrolifere è circa 24mila kmq, un’area grande come la Sardegna».
Gli ambientalisti disegnano le caselle di un vero assalto al mare italiano, in particolare nel mirino di piccole e grandi multinazionali ci sono l’Adriatico centro meridionale, lo Jonio e il Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme.
«Questo – sottolinea Legambiente – nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del Ministero dello sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attuali durerebbero per appena due mesi. Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita dal petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere».
«Le realtà locali – aggiunge Legambiente – restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto per “pugno di taniche”».
I numeri del dossier di Goletta Verde sono impressionanti e disegnano una scenario senza precedenti, per questo dal vascello ambientalista alla fonda in Sicilia è partito un appello al governo ed al parlamento perché «non solo vengano riviste le scellerate scelte politiche in materia energetica praticate dall’ex Ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, a partire dall’abrogazione dell’articolo 35 del decreto sviluppo, ma soprattutto venga ridata voce e possibilità di scelta ai territori e alle popolazioni interessate dalle richieste di estrazioni avanzate dalle compagnie petrolifere».
Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente, ha evidenziato che «nonostante i dati dimostrino una graduale uscita dal petrolio, nell’ultimo anno è aumentata la produzione di greggio nel nostro Paese. Siamo di fronte a un attacco senza precedenti alle bellezze del nostro Paese. Stiamo cedendo chilometri di costa e sottosuolo in cambio di una presunta, quanto irreale, indipendenza energetica. La realtà è che l’Italia è diventata una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri. Per loro il rischio d’impresa, grazie alle ultime leggi, è quasi nullo, mentre restano incalcolabili i rischi per l’ambiente. Occorre fermare al più presto questa insensata corsa all’oro nero e per questo chiediamo al Parlamento di abrogare l’articolo 35 del decreto sviluppo, vera manna dal cielo per i petrolieri. Ma occorre anche una forte azione congiunta di Regioni, Province, Comuni e tutti gli altri Enti Locali nei confronti del Governo per assicurarsi un ruolo determinante in scelte così importanti per il loro futuro».
In realtà si tratta di quantitativi di petrolio davvero risibili rispetto agli enormi giacimenti dei quali spesso scriviamo su greenreport.it, e che secondo il dossier “Per un pugno di taniche”, «dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive e della spinta verso nuove trivellazioni volte a creare secondo i proponenti 15 miliardi di euro di investimento e 25 mila nuovi posti di lavoro. Nulla in confronto ad una politica energetica basata su risparmio, efficienza energetica e fonti pulite e rinnovabili che potrebbe portare nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità. Ossia 10 volte i numeri ottenuti grazie alle nuove trivellazioni e soprattutto garantire uno sviluppo futuro, anche sul piano economico, sicuramente molto più sostenibile e duraturo. E invece di ragionare su come aumentare la produzione di petrolio nazionale, avremmo potuto mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili, a partire dai settori che sono ancora indietro su questo. Ad esempio invece di regalare al settore dell’auto trasporto ogni anno, come avvenuto negli ultimi dieci anni, circa 400 milioni di euro sotto forma di buoni carburante, sgravi fiscali e bonus per i pedaggi autostradali, si fossero utilizzati quei 4 miliardi di euro per una mobilità nuova per rendere più sostenibile il modo con cui si spostano merci e persone in questo paese, avremmo avuto riduzioni della bolletta petrolifera e delle importazioni di greggio ben maggiori e durature rispetto a quel pugno di taniche presente nei mari e nel sottosuolo italiano».
Naturalmente la Goletta Verde non poteva non soffermarsi sul caso Sicilia, dove attualmente nel Canale di Sicilia ci sono 5 permessi di ricerca rilasciati per 2.446 km2, ma rispetto al 2012 sono scomparsi i 6 permessi di ricerca della Shell Italia E&P a largo delle Egadi, un’attività petrolifera che al momento sembra sospesa ma su cui resta alta l’attenzione.
«Un dato positivo – dicono a Legambiente – che mette la parola fine, almeno per il momento, sulla petrolizzazione di quella zona». Già nel 2011 Goletta Verde aveva fatto un blitz nell’Arcipelago per denunciare la minaccia per quel preziosissimo e delicato ecosistema marino. Ma in tutto il resto del Canale di Sicilia le compagnie interessate si sono spartite l’area in maniera quasi omogenea: «Eni – Edison che hanno due permessi di ricerca per un totale di 831 km2 nel territorio di Licata; la Northern Petroleum ha invece un solo permesso di ricerca rilasciato per un’area di 620 km2 nella porzione di area di fronte a Ragusa, mentre la compagnia Audax Energy ha un permesso nel mare dell’isola di Pantelleria di 657 km2. Infine la Vega Oil ha un permesso a largo di Ragusa per un’area marina di 337 km2».
E ancora: «Oltre ai permessi già rilasciati incombono nel Canale di Sicilia 10 richieste di permessi di ricerca per circa 4.050 km2: a sud di Capo Passero (Sr), a largo di Gela; a largo della costa di Pozzallo (tra Gela e Siracusa); a largo di Agrigento e nel tratto di mare tra Marsala e Mazara del Vallo».
Mimmo Fontana, presidente Legambiente Sicilia, fa notare che «nel 2012 le maggiori produzioni di petrolio dei mari italiani si sono registrate nelle piattaforme ubicate nel Canale di Sicilia, dove la piattaforma Vega A ha prodotto da sola oltre il 30% del totale estratto a mare, mentre nell’intera area marina (comprensiva anche delle piattaforme di Gela, Perla e Prezioso) si è prodotto circa il 62% del totale di produzione di greggio marino. Una folle corsa che non accenna a fermarsi e rischia di mettere in pericolo una delle maggiori risorse di quest’isola, che non è certamente il greggio ma i suoi paesaggi naturali e marini. Invece, per un “pugno di taniche” stiamo vendendo il nostro futuro alle compagnie petrolifere. Aumentando, inoltre, esponenzialmente il rischio per il nostro territorio, perché stiamo autorizzando pozzi a una profondità maggiore addirittura di quello che ha danneggiato il Golfo del Messico. Oggi abbiamo reso queste estrazioni economicamente vantaggiose; pozzi fuori controllo che nessuno può garantire in caso di incidenti. Occorre fare fronte comune per fermare quest’assurda invasione nei nostri mari e ridare così agli enti locali e agli stessi cittadini la possibilità di riappropriarsi delle scelte che riguardano i loro territori».