Perché la nuova guerra dell’Iraq può mettere in crisi l’industria petrolifera globale
"Lo Stato islamico in Iraq e nella Grande Siria", che si sta rinforzando, è un ex ramo di al-Qaeda
[18 Giugno 2014]
Il Medio Oriente è in tumulto e l’Iraq sta vivendo il suo ultimo sconvolgimento, con lo Stato islamico in Iraq e nella Grande Siria (Isis) – anche conosciuto come lo Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil) – che rinsalda la sua presa su alcune parti del Paese e amplia il suo territorio in altre. L’Isis è un ex ramo di al-Qaeda che vuole ridisegnare i confini del Medio Oriente con la creazione di uno stato islamico estremista e la sua ascesa al potere è destabilizzante per l’intera regione. La vicina Siria si sta già avvicinando a diventare uno Stato fallito, con circa un quinto della popolazione che cerca rifugio in altri Paesi.
Il gruppo è composto da insorti sunniti e l’Iran, uno stato sciita, è giustamente preoccupato per l’escalation della violenza. Il petrolio è il maggior elemento di disputa in questo confronto, proprio come lo è stato in tutta la storia moderna del Medio Oriente.
Dopo periodi di guerra, sanzioni, e ancora guerra, la produzione di petrolio iracheno negli ultimi anni è lievitata e, alla fine del 2012, il Paese ha superato l’Iran come secondo più grande produttore di greggio Opec. Come ottavo produttore del petrolio totale nel 2012 e il quinto più grande detentore di riserve accertate del mondo, secondo l’Eia, l’Iraq potrebbe essere uno dei pochi luoghi rimasti dove lo risorse di idrocarburi non sono state ancora pienamente sfruttate. Attualmente, la produzione è a circa 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno.
La recente epidemia di caos, compresa la conquista da parte dell’Isis di Mosul, la seconda città dell’Iraq, ha innescato un aumento della speculazione globale sui prezzi del greggio. Tuttavia, solo circa il 10% delle recenti esportazioni di petrolio dell’Iraq passano attraverso la zona settentrionale del paese nella quale l’Isis ha stabilito una roccaforte, e per ora la situazione convulsa non sta avendo un impatto significativo sulla produzione.
«La maggior parte dei campi petroliferi nella regione sono intorno a Bassora, tra l’Iran e il Kuwait, quindi non sono realmente in pericolo in questo momento e dubito che lo saranno – ha detto a ThinkProgres Peter Juul, un analista politico specializzato in Medio Oriente di ‘American Progress – A meno che in qualche modo l’Isis non ribalti il tavolo e conquisti tutto il Paese, il che porterebbe al caos generale. Ma non credo che accadrà».
Gli investimenti stranieri delle compagnie petrolifere multinazionali come ExxonMobil, BP, Chevron hanno contribuito a far rinascere i campi petroliferi iracheni che hanno sofferto la mancanza di manutenzione e controllo durante l’epoca di Saddam Hussein. Anche se il rischio di collasso del Paese è ancora lontano, queste companies sono senza dubbio preoccupate per la sicurezza dei loro investimenti e i lavoratori nella regione.
«Lo scenario globale ha reso la gente più prudente riguardo l’invio di denaro e persone – dice Juul – Anche il clima politico generale è preoccupante. Il primo ministro Nouri al-Maliki non ha inserito i sunniti nel governo e altri partiti sciiti islamici non vogliono realmente che lo faccia».
A parte la maggioranza sciita e gli insorti sunniti, ci sono anche i curdi, un gruppo etnico che risiede in una regione chiamata Kurdistan che comprende una parte significativa del nord dell’Iraq. Il giacimento di Kirkuk, che produce circa 400.000 barili al giorno, è un importante hub per le esportazioni energetiche irachene. Porre il governo della città sotto l’autorità del Governo Regionale Curdo autonomo (Kurdish Regional Government – Keg) o del governo centrale di Baghdad, in passato è stato una fonte di tensione, con Baghdad che sostiene che il petrolio deve esse esportato attraverso la State Organization for Marketing of Oil (Somo) dell’Iraq. Può essere un punto controverso, in quanto è attualmente sotto il controllo dei curdi dopo che le loro forze di sicurezza hanno scacciato l’Isis la settimana scorsa.
«Per molti versi è un ritorno al futuro – dice Juul – L’Isis ha un po’ di petrolio e anche i curdi se ne sono appropriati, è l’orgoglio etno-nazionale delle risorse ed è un grande problema che sta bloccato tutto come in una melassa».
Se gli insorti saranno in grado di continuare a premere a sud e di conquistare i maggiori campi petroliferi o almeno di interromperne la produzione, la capacità produttiva che rimarrà all’Opec è equivalente circa a 3,3 milioni di barili al giorno in Iraq. Tuttavia, se la produzione di petrolio viene interrotta, i mercati avranno ancora più disagi e i prezzi saliranno.
«Se ci fosse una vera spaccatura dall’Iraq, potremmo vedere un aumento dei prezzi almeno da 10 a 15 dollari – ha detto a Bloomberge Victor Shum, vice presidente di IHS Energy Insight, un consulente di Singapore – Penso che se i prezzi del petrolio andranno sopra 120 dollari, le nazioni consumatrici discuteranno del rilascio delle scorte strategiche».
Secondo Matteo M. Reed, vice presidente di Foreign Reports, una società di consulenza di Washington DC, «l’Opec non sta ancora perdendo il sonno per l’Iraq. Questo cambierà se la produzione andrà in crisi o se il mercato resterà ansioso durante questa estate, quando vedremo l’aumento stagionale della domanda – ha detto a ThinkProgress – Poi l’Arabia Saudita, l’unico Paese con riserve di una certa capacità, potrebbe decidere se produrre più petrolio. Più lo scenario diventa probabile è più vedremo quale sarà il rilascio della riserva strategica di petrolio. Ma questo è un cerotto, non una soluzione reale».
Reed ha detto che uno dei più grandi interrogativi che abbiamo di fronte è quel che accade nei territori contesi dell’Iraq. Si domanda se Kirkuk diventerà un flashpoint del conflitto tra governo iracheno, Isis e Krg. Se ciò accadesse si potrebbe mettere a terra l’industria petrolifera, e l’Iraq al margine. L’esercito iracheno ha già abbandonato i campi di petrolio ai Peshmerga, il nome per i combattenti curdi, e da martedì la più grande raffineria di petrolio dell’Iraq, Baiji, è chiusa e il suo personale straniero è stato evacuato dopo che i jihadisti dell’Isis hanno circondato la parte centro-settentrionale del Paese. L’esercito iracheno rimane a controllare l’impianto.
«Per ora, l’Isis e i curdi hanno solo premuto l’off e l’on – ha detto Reed – L’Isis non ha fatto un’azione aggressiva verso i campi o strutture del Krg o i territori contesi dove ora vediamo i Peshmerga. Sarebbe un game changer. I campi e le strutture del sud sono sicuri, per ora, ma un loro bombardamento potrebbero inviare onde d’urto attraverso il mercato. Questo potrebbe anche essere un invito per altri attacchi».
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, sono interessati a più o meno 341.000 barili al giorno dall’Iraq, che rappresentano meno del 4% del totale delle importazioni di petrolio greggio del Paese: non sono il driving della politica Usa. Le preoccupazioni più pressanti sono l’integrità dell’Iraq come Paese e la possibilità di minacce dirette sul suolo americano»
«Qui a casa nostra, ogni colpo ai prezzi verrà citato da coloro che vogliono trivellare di più, trivellare ora, e limitare l’esposizione degli Stati Uniti ai disordini stranieri – ha detto Reed – Naturalmente, i prezzi non funzionano esattamente così, ma questo non fermerà chi fa questo tipo di argomentazioni».
Ari Phillips, reporter di ClimateProgress.org
Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno su ThinkProgess con il titolo “Why The Crisis In Iraq Has The Global Oil Industry On Edge”