L'intervista a Fabrizio Bianchi, dirigente di ricerca dell’Unità di epidemiologia ambientale
Danno sanitario, a greenreport la nuova valutazione spiegata dal Cnr
La scienza può dare molto, ma dobbiamo rimanere consapevoli del principio di responsabilità
[9 Ottobre 2013]
È stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana il decreto 24 aprile 2013 “Disposizioni volte a stabilire i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario (VDS) in attuazione dell’art. 1-bis, comma 2, del decreto legge 3 dicembre 2012, n.207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n.231”. Attraverso questo provvedimento e il suo allegato tecnico, vengono stabiliti i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario.
Tale rapporto deve essere predisposto annualmente dagli Enti interessati (Asl, Arpa) nei casi in cui uno stabilimento è ritenuto di interesse strategico nazionale. Il rapporto di valutazione deve informare dello stato di salute connesso a rischi attribuibili all’attività dello stabilimento in esame, fornire elementi di valutazione per il riesame dell’autorizzazione integrata ambientale per indirizzarla a soluzioni tecniche più efficaci nel ridurre i potenziali esiti sanitari indesiderati, valutare l’efficacia in ambito sanitario delle prescrizioni.
Ricordiamo che il decreto di definizione dei criteri di valutazione del danno sanitario era previsto dal Decreto n. 207/2012, varato per garantire la produzione dell’Ilva di Taranto e l’applicazione dell’Autorizzazione integrata ambientale. Considerata la complessità della materia e la discussione che si aperta sul decreto nel mondo scientifico, greenreport ha chiesto alcuni chiarimenti a Fabrizio Bianchi, dell’Unità di epidemiologia ambientale e registri di patologia, dell’Istituto di fisiologia clinica, del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa.
Quali sono i limiti, gli aspetti da chiarire o i passaggi da migliorare per una applicazione cogente del decreto?
«Nel documento si sostiene che “valutazioni epidemiologiche e valutazioni del rischio sono tecniche basate su approcci teorici diversi. Ne consegue che la procedura di VDS assumerà una struttura matriciale composta da due direttrici indipendenti, finalizzate rispettivamente alla stima del danno attuale e futuro, articolate su più livelli commisurati alle diverse necessità delle valutazioni specifiche”. Viene poi descritto il meccanismo valutativo, articolato su due diverse linee ognuna delle quali su tre livelli in sequenza, che affida agli studi epidemiologici il compito delle valutazioni di stato passato e attuale, e al risk assessment il ruolo di motore della procedura definita di valutazione del danno potenziale, che potrebbe portare alla ridefinizione delle prescrizioni sull’impianto, anche mediante riapertura dell’AIA. Su questa articolazione abbiamo formulato alcune riserve, in particolare:
i) sulla separazione dell’epidemiologia dalla valutazione di rischio, quando l’epidemiologia è fondamentale proprio per la stima del rischio, della relazione tra esposizione e effetti sulla salute;
ii) sul ragionamento per singola sostanza, che se sulla base dei dati ambientali disponibili, non supera i valori stabiliti per legge, determina la fermata della procedura. Questo elemento comporta una sottostima del rischio sanitario. Infatti, da una parte i valori di riferimento per le sostanze tossiche sono in continua rivalutazione (si veda solo per esempio l’intera letteratura scientifica sugli effetti delle polveri che individua effetti sanitari per livelli ben al di sotto dei valori di legge), dall’altra l’esposizione di quote grandi di popolazione a livelli anche molto bassi può comportare effetti sanitari importanti, e, in aggiunta, gruppi più suscettibili possono essere vulnerabili a livelli anche molto inferiori alle soglie. Inoltre non possono essere trascurati gli effetti sinergici tra varie sostanze;
iii) non hanno trovato collocazione altri approcci che sarebbero utili in aree già definite ad elevato rischio ambientale per la salute (come i Siti di Interesse Nazionale per la bonifica decretati per legge), come il sistema di sorveglianza ambiente-salute e gli studi di intervento per misurare l’effetto positivo di azioni preventive. Un buon sistema di sorveglianza ambiente-salute sarebbe sufficiente a monitorare gli andamenti dei fenomeni e dare segnali di “fuori controllo” in tempi rapidi, permettendo la presa di decisioni adeguate. Studi per misurare l’efficacia di interventi preventivi avrebbero il pregio di essere molto specifici e collegati a azioni positive».
Quali sono (se rilevati) invece gli elementi innovativi del decreto?
«In linea generale non va sottovalutata l’importanza del fatto che l’allegato tecnico prevede la considerazione di evidenze scientifiche di tipo ambientale, epidemiologico, tossicologico. La buona intenzione è quella di prevedere un meccanismo per valutare gli effetti misurabili ai fini di poter decidere migliori tecnologie o anche diverse modalità di produzione. Questo meccanismo deve essere perfezionato rendendolo più aderente ai risultati ottenuti da studi di campo di elevata qualità e disegno analitico evoluto. L’allegato tecnico è un detonatore di dibattito e di riflessioni sia sul piano tecnico-scientifico sia su quelli dell’etica e della politica».
Rispetto alla VDS sono disponibili altri strumenti che meglio concentrano la loro azione sulla fase di prevenzione dove esiste un pregresso di dati scientifici conosciuti?
«Ci sono procedure per la valutazione integrata di impatto ambientale sulla salute (VIIAS), come quello messo a punto sulla base dei risultati dei due progetti europei INTARESE e HEIMTSA, in grado di valutare cosa e quanto si può guadagnare in termini di risparmio di malattie e morti premature se si definiscono scenari alternativi di prevenzione primaria. Riteniamo che proprio tale approccio sia appropriato in aree ove i pericoli sono conosciuti, la popolazione esposta è stata definita, i rischi sono stati stimati e le misure preventive sono quindi urgenti».
Rispetto al caso Taranto, l’applicazione del decreto e del suo allegato fa fare un passo in avanti per la valutazione dell’impatto sanitario, oppure no?
«Si e no. Non si assume fino in fondo l’impegno di una vera valutazione di impatto secondo la metodologia consolidata a livello internazionale, ma con la definizione di una procedura di valutazione del danno potenziale si avvicina molto a questa direzione. I problemi principali connessi a questa scelta sono da una parte che non assumendo l’approccio VIS non si prevede l’adeguato coinvolgimento dei portatori di interessi in tutte le fasi, da quella iniziale di screening della realtà a quello finale del monitoraggio degli effetti delle scelte; dall’altra una eccessiva centralizzazione sulla procedura di risk assessment, del tipo correntemente usato nelle discipline sperimentali e sull’assunzione di valori di riferimento “esterni”, come le funzioni di rischio derivanti dagli studi tossicologici (Hazard Quotient per le sostanze non cancerogene e Slope Factor per le sostanze cancerogene), rischia di depotenziare le prove rese disponibili dagli studi epidemiologici effettuati sul campo.
Il caso Taranto è così drammatico per implicazioni ambientali, sanitarie, occupazionali e sociali, che ha bisogno di un sovrappiù di precauzione nello sviluppo di scelte. D’altra parte è anche una situazione che ha bisogno di decisioni partecipate e urgenti. In queste situazioni anche lo studiare deve essere commisurato a quanto già si può decidere sulla base di quello che si sa già.
In altre parole, la scienza può dare molto ma dobbiamo essere consapevoli che l’uso della scienza non si sottrae ai rischi ben conosciuti e sperimentati nel passato e nel recente. Insomma, per dirla in termini filosofici “Il nuovo imperativo etico evoca una coerenza di tipo metafisico, non dell’atto in sé, ma dei suoi effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire, e l’universalizzazione non è più ipotetica (se qualcuno facesse così…), al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo” (Hans Jonas, Il principio di responsabilità, 1979)».