E’ stata la salmonella enterica portata dagli spagnoli a spazzare via la civiltà azteca?
La “peste” cocoliztli è stata la più grande epidemia messicana dell’era coloniale
[17 Gennaio 2018]
La salmonella enterica, il batterio responsabile della febbre enterica, potrebbe essere la causa a lungo cercata dell’epidemia di “cocoliztli” che imperversò dal 1545-1550 d.C. in Messico, decimando la popolazione autoctona e che ebbe un effetto paragonabile a quello della peste nera in Europa – quando morirono 25 milioni di persone – provocando il crollo definitivo della civiltà azteca.
A dirlo è lo studio “Salmonella enterica genomes from victims of a major sixteenth-century epidemic in Mexico” pubblicato su Nature Ecology and Evolution da un team scientifico internazionale, guidato da ricercatori del Max-Planck-Instituts für Menschheitsgeschichte (Mpi-Shh), dell’Harvard Universitye dell’ Instituto Nacional de Antropología e Historia (Inah) del Messico, che ha utilizzato il DNA antico e un nuovo programma di elaborazione dati per identificare la possibile causa di dell’epidemia coloniale di “cocoliztli” in Messico.
Dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli capitanati da Hernán Cortés, nel XVI secolo circa l’80% della popolazione azteca rimanente fu annichilita da quella che gli indigeni chiamarono “cocoliztli”, che in lingua náhuatl significa malattia o peste, e la cui causa è rimasta un mistero per quasi 500 anni. Ora il nuovo studio scarta come possibili cause malattie come il vaiolo, il morbillo, la parotite e l’influenza, sconosciute agli aztechi e portate nelle Americhe dagli spagnoli.
All’inizio del 2017 erano stati pubblicati su bioRxiv, da due diversi team di ricerca internazionali, due studi –“Salmonella enterica genomes recovered from victims of a major 16th century epidemic in Mexico” e “Millennia of genomic stability within the invasive Para C Lineage of Salmonella enterica” – che avevano indicato per la prima volta la Salmonella come possibile colpevole del crollo definitivo della civiltà azteca. Ma María Ávila-Arcos, una genetista evolutiva dell’ Universidad Nacional Autónoma de México (Unam), aveva subito espresso su Nature forti dubbi sui risultati dei due studi e, come altri ricercatori, sosteneva che sarebbe stato un virus, e non di un batterio, ad aver causato l’epidemia “cocoliztli”, scoppiata solo due decenni dopo un’epidemia di vaiolo che uccise tra i 5 e gli 8 milioni di persone immediatamente dopo l’arrivo degli spagnoli.
Tra tutte le epidemie coloniali del Nuovo Mondo, quella di cocoliztli è stata tra le più devastanti, colpì vaste aree Messico e del Guatemala, compresa la città mixteca di Teposcolula-Yucundaa, vicino a Oaxaca. Gli scavi archeologici nel sito di Teposcolula-Yucundaa hanno portato alla luce l’unico cimitero fino ad oggi conosciuto con resti collegati all’epidemia di cocoliztli. La principale autrice dello studio, Åshild Vågene dell’Mpi-Shh, sottolinea che «Dato il contesto storico e archeologico, Teposcolula-Yucundaa ci ha fornito un’opportunità unica per affrontare la questione riguardante le cause microbiche sconosciute responsabili di questa epidemia». Infatti, la città di Teposcolula-Yucundaa venne trasferita dalla cima di una montagna nella valle vicina, lasciando il cimitero con i morti da cocoliztli sostanzialmente intatto prima dei recenti scavi archeologici. Queste circostanze hanno reso Teposcolula-Yucundaa un sito ideale per testare il nuovo metodo per la ricerca di prove dirette della causa della malattia.
Gli scienziati hanno analizzato il DNA antico estratto da 29 scheletri presenti nel sito e hanno utilizzato un nuovo programma di calcolo per caratterizzare l’antico DNA batterico. Questa tecnica ha permesso loro di cercare tutto il DNA batterico presente nei loro campioni, senza dover specificare in anticipo un particolare bersaglio.
I ricercatori del Mpi-Shh ricordano che «Dopo il contatto con gli europei, decine di epidemie hanno colpito le Americhe devastando le popolazioni del Nuovo Mondo. Sebbene siano stati registrati molti resoconti di prima mano di queste epidemie, nella maggior parte dei casi per i ricercatori è stato difficile, se non impossibile, identificare in modo definitivo le loro cause sulla base delle descrizioni storiche dei loro soli sintomi. In alcuni casi, ad esempio, i sintomi causati dall’infezione di diversi batteri o virus potrebbero essere molto simili, oppure i sintomi che presentano alcune malattie potrebbero essere cambiati negli ultimi 500 anni». Quindi il team internazionale sperava che i progressi fatti nell’analisi del DNA antico e da altri approcci di questo tipo potessero far fare un passo avanti nell’identificazione delle cause sconosciute delle epidemie del passato in Messico.
E ci avevano visto giusto: il nuovo metodo di screening ha rivelato prove promettenti di tracce di DNA di Salmonella enterica in 10 dei loro campioni. Dopo questo incoraggiante risultato iniziale, è stato applicato un metodo di arricchimento del DNA specificamente progettato per questo studio e così gli scienziati sono stati in grado di ricostruire interi genomi di S. enterica e hanno scoperto nei resti scheletrici di 10 individui una sottospecie di S. enterica che causa la febbre enterica. Si tratta della prima volta che degli scienziati riescono a recuperare le prove molecolari di un’infezione microbica da questo batterio utilizzando materiale antico del Nuovo Mondo.
I ricercatori tedeschi spiegano che «La febbre enterica, di cui la febbre tifoide è la varietà più conosciuta oggi, provoca febbre alta, disidratazione e complicanze gastro-intestinali. Oggi la malattia è considerata una grave minaccia per la salute in tutto il mondo, avendo causato circa 27 milioni di malati solo negli anni 2000. Però si sa molto poco delle epidemie di febbre enterica del passato.
Secondo uno degli autori dello studio Alexander Herbig del Mpi-Shh, «Un risultato chiave di questo studio è che siamo riusciti a recuperare informazioni su un’infezione microbica che circolava in questa popolazione e non abbiamo avuto bisogno di specificare un particolare obiettivo in anticipo. Di solito, in passato, gli scienziati miravano a un particolare agente patogeno o a un piccolo insieme di agenti patogeni, per i quali avevano una precedente indicazione».
Il principale co.autore dello studio Johannes Krause, direttore del Dipartimento di archeogenetica dell’Mpi-Shh, evidenzia che «Questo nuovo approccio ci consente di effettuare ricerche a livello di genoma per tutto ciò che può essere presente» e Kirsten Bos, anche lei dell’Mpi-Shh, conclude: «Questo è un progresso essenziale nei metodi a nostra disposizione come ricercatori di malattie antiche; ora possiamo cercare le tracce molecolari di molti agenti infettivi nella documentazione archeologica, che è specialmente pertinente nei casi tipici in cui la causa di una malattia non è nota a priori».