Land grabbing italiano in Senegal, più di 9.000 persone a rischio terra bruciata [VIDEO]
Petizione internazionale contro la concessione di 20.000 ettari alla Tampieri Financial Group
[3 Marzo 2014]
Una coalizione di associazioni denuncia il land grabbing terra in Senegal, l’accaparramento di nella regione di Ndiaël, dove oltre 9.000 persone di 37 villaggi, che vivono in gran parte di allevamento semi-nomade (80000 capi di bestiame) e piccola agricoltura, «Sono messe in ginocchio da un progetto che vede protagonista un’azienda italiana: la Tampieri Financial Group. Mediante una concessione governativa, ventimila ettari di terra saranno sottratti agli abitanti locali che vivono di pastorizia, piccoli allevamenti, agricoltura, privandoli di ogni possibilità di sussistenza. Le comunità locali chiedono di interrompere il progetto. Ma la loro voce da sola non basta. Uniamoci a loro».
Secondo le associazioni (Collectif de la défense de la réserve de Ndiaël, Consiglio Nazionale per la Consultazione e Cooperazione Rurale – Cncr, ActionAid Sénégal e Italia, Enda -Pronat, Peuple Solidaires, Re:Common, Grain ed Oakland Institute) si può ancora fermare il progetto che la Tampieri sta realizzando nel nord del Senegal attraverso la sua controllata Senhuile SA, e invitano a firmare una petizione on-line da inviare a Giovanni Tampieri, amministratore delegato della Tampieri Financial Group.
Nel documento che accompagna l’iniziativa della coalizione anti-land grabbing si legge che «la crescita dei prezzi dei prodotti alimentari del 2007-2008 ha provocato un cambio di tendenza degli investimenti nel settore agricolo. Il numero di progetti per realizzare coltivazioni nei Paesi in via di sviluppo sono aumentati in maniera esponenziale, coinvolgendo anche aziende italiane. Una di queste, la Tampieri Financial Group Spa, una grande holding familiare con sede a Ravenna e produttrice di olio alimentare ed energia rinnovabile da biomasse, sta investendo dal 2011 nel nord del Senegal attraverso la sua controllata Senhuile SA per realizzare coltivazioni agroalimentari. Il progetto è però fortemente criticato, perché è stata chiaramente riscontrata una violazione del rispetto dei diritti nei riguardi delle comunità locali.
Nel 2010 la Senhuile, che allora si chiamava Senéthanol, ha avviato la coltivazione di 20.000 ettari ottenuti in concessione dal Consiglio Rurale di Fanaye , ma le comunità locali si sono opposte, contestando la legittimità della concessione e denunciando i rischi per la sicurezza alimentare delle popolazioni locali. Come ricorderanno i lettori di greenreport.it, nell’ottobre del 2011, durante una manifestazione contro l’accaparramento delle terre da arte degli “italiani” ci furono due morti, dopo quegli scontri, l’allora presidente liberista del Senegal, Abdoulaye Wade, incontrò i rappresentati del Collectif pour la défense des terres de Fanaye che ottennero l’annullamento del progetto. Ma nel marzo 2012 Wade ci ripensò ed approvò due decreti: uno aboliva i vincoli ambientali sui 26.550 ettari della Réserve de Ndiaël, un’area protetta vicina a Fanaye; l’altro dava in concessione per 50 anni 20.000 ettari di questa terra alla Senhuile-Senéthanol per realizzarci un progetto agro-industriale realizzato dalla Senhuile SA, un consorzio per il 51% del Gruppo Finanziario Tampieri, e per il 49% della Sénéthanol di Dakar, che prevede di produrre semi di girasole (per l’Europa), arachidi (per il mercato locale) e foraggio per bestiame.
Le associazioni denunciano: «L’area interessata si trova nella riserva naturale dello Ndiaël, dove da anni oltre 9.000 persone, appartenenti ai 37 villaggi ubicati intorno al progetto, avevano il diritto d’accesso e di uso della terra per il pascolo e per la raccolta di prodotti naturali spontanei e di legname, importanti fonti di sostentamento per le popolazioni locali. A causa dell’avvio delle operazioni di disboscamento per poter procedere alla coltivazione dei terreni gli allevatori si trovano privati dell’accesso ai pascoli, perché l’area è sorvegliata da guardie di sicurezza. Pertanto sono costretti ad allungare enormemente i tempi di approvvigionamento di legna e acqua, perché devono arginare i terreni sequestrati e recintati da filo spinato. Inoltre, le operazioni di pulizia dei terreni hanno causato la profanazione di spazi sacri e cimiteri! La presenza dell’impresa, a causa dell’opposizione da parte delle popolazioni locali, provoca continue tensioni e una preoccupante conflittualità sociale nell’area».
Rougui Sow, un abitante del villaggio di Kadoudef, ha detto: «Se il progetto resta qui, saremo costretti a lasciare il nostro villaggio». Per questo quelli di ActionAid dicono che l’investimento italiano va bloccato: «Questo progetto rappresenta una minaccia per le popolazioni che vivono in quei territori. Le modalità stesse con le quali l’investimento è stato realizzato, la mancanza di uno studio di impatto preliminare, le decisioni assunte senza la consultazione e l’approvazione delle persone più direttamente colpite, i rischi per il diritto al cibo, all’acqua e all’accesso alle altre risorse naturali fanno di questo investimento un caso emblematico di accaparramento di terre (land grabbing). I rappresentanti dei 37 villaggi che si oppongono all’investimento chiedono che tutto questo venga immediatamente fermato!»
Per firmare la petizione: