Irpet, investimenti pubblici per un nuovo modello di sviluppo in Toscana

Negli ultimi vent’anni «si è ridotta la torta e le fette si sono distribuite in modo più diseguale. Le ferite sono state profonde»

[12 Gennaio 2022]

Il direttore dell’Istituto regionale per la programmazione economica (Irpet), Nicola Sciclone, è stato audito ieri in Commissione Affari istituzionali del Consiglio toscano, per contribuire alla realizzazione del piano regionale di sviluppo dopo anni di profondo declino.

Resta ancora da valutare l’impatto della nuova variante Omicron sull’economia toscana, ma «siamo all’interno di un percorso di ritorno alla normalità», dichiara Sciclone, dopo una lunga congiuntura sfavorevole nel corso della quale «si è ridotta la torta e le fette si sono distribuite in modo più diseguale. Le ferite sono state profonde, la situazione apre a un’esigenza di rafforzamento dell’investimento pubblico».

Anche perché finora lo sviluppo non si è visto dove più serve, ovvero il mondo del lavoro: la crescita al momento è «più visibile nel ciclo produttivo che in quello occupazionale», mentre la caduta è stata per la Toscana peggiore rispetto alle altre regioni «perché il nostro sistema produttivo è più orientato all’export», spiega Sciclone. Un modello che non funziona più.

«Le tendenze di fondo degli ultimi venti anni, fino all’arrivo della pandemia – argomenta il direttore Irpet – ci illudevamo di poter compensare l’avanzo di bilancio, cioè il rigore nei conti pubblici, con l’avanzo commerciale. In realtà, per anni, per ogni euro di avanzo commerciale, abbiamo avuto 2,3 punti in meno di domanda interna. Ora, il Pnrr crea le condizioni perché questo elemento possa essere significativamente corretto. Andrà a ricostituire dotazione che si è erosa», o almeno questo è l’auspicio.

«Vale la pena riflettere su cosa significhi questo ritorno alla normalità», prosegue Sciclone, che fotografa la progressiva perdita di ricchezza del sistema nel lungo periodo: «Il tasso medio annuo di variazione del Pil dal ’95 al 2019 era lo 0,6%; meno 0,5% la variazione media annua del reddito disponibile per abitante; la crescita della disoccupazione giovanile è passata dall’11 al 17%, il tasso di famiglie povere è aumentato del 5% negli ultimi dieci anni».

E tutto questo nonostante la Toscana sia andata meglio dell’Italia nel suo complesso. I problemi sono sempre i soliti: domanda interna, investimento pubblico, occupazione, povertà e transizione ecologica. Un contesto dove a mancare nella domanda aggregata sono stati soprattutto gli investimenti, più che i consumi.

Dentro la caduta della domanda interna, conferma nel merito Sciclone, «questa asimmetria si intensificava nel rapporto fra consumi e investimenti: i consumi sono calati del 2%, gli investimenti del 19%. La base produttiva è andata a ridimensionarsi, specie il manifatturiero. Il terziario è cresciuto, non quello legato ai servizi pubblici, che valorizzano di più il capitale umano, ma servizi legati direttamente ai consumi, a più basso valore aggiunto».

E il sistema “regge” solo impattando in termini di una minore intensità di lavoro: «Meno ore per occupato e una dinamica salariale molto contenuta e una forte flessibilità dell’impiego. C’è stata una polarizzazione delle professioni, tra alta e bassa resa salariale, tra alta e bassa qualifica, con prevalenza delle professioni a più basso profilo di qualifica e di rendimento salariale».

Nel complesso ci sono varie sfide da affrontare per la Toscana: a partire da «quella demografica, di cui sembra non ci sia consapevolezza della gravità. Tra 15 anni – avverte Sciclone – avremo carenza di popolazione attiva, uno squilibrio demografico inconciliabile con un percorso di crescita economica: serviranno o un incremento molto elevato di produttività, difficile da immaginare, oppure politiche di integrazione e immigrazione per compensare la carenza delle nascite».

La sfida conseguente «è legata al capitale umano. C’è sottrazione nelle qualifiche elevate. Occorre un salto culturale: sarà importante investire in conoscenze, ma anche in competenze, in una istruzione di tipo professionalizzante per avvicinare mondo del lavoro, mondo della formazione e mondo della scuola».

Senza dimenticare la partita della transizione ecologica, che ancora stenta senza una chiara politica industriale alle spalle: «Consumiamo molta più energia rispetto al passato e ancora troppo da fonti fossili. La transizione sarà più difficile da realizzare, mentre l’innovazione digitale è una transizione che un po’ va da sé, ci sono risorse e le imprese tenderanno a utilizzarle».