Pietrasanta, Survival contro la mostra di Jimmy Nelson sui popoli indigeni
Lettera al curatore Folco Quilici: «E’ un’arrogante sciocchezza neocolonialista»
[6 Luglio 2015]
Il libro “Before they pass away” (Prima che scompaiano) del fotografo Jimmy Nelson è diventato una mostra che sta facendo il giro del mondo e che dal 4 e fino al 23 luglio è ospitata dalla galleria Ph Neutro di Pietrasanta, ma si tratta di un lavoro controverso e duramente contestato da popoli indigeni e da Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che lo definisce «Un’arrogante sciocchezza perché fornisce un’immagine falsa e dannosa dei popoli indigeni».
Nelson presenta le sue immagini come un «archivio etnografico» ed ha dichiarato di aver «fotografato gli indigeni ancora esistenti in una sorta di giardino idilliaco dell’Eden prima della caduta – aggiungi pure un livello tragico della narrazione – prima che essi scompaiano». Ma Survival denuncia che «Fin dal suo titolo, l’opera di Nelson suggerisce l’idea che la scomparsa dei popoli indigeni sia un risultato naturale e inevitabile della storia, di cui ci si può forse dispiacere, ma a cui non ci si può opporre».
Stephen Corry, direttore generale di Survival, che ha definito la mostra «Un’arrogante sciocchezza», ha spiegato il perché le foto di Nelson facciano arrabbiare così tanto chi difende i popoli autoctoni: «In realtà molte minoranze, e in particolare quelle tribali, non stanno “scomparendo” naturalmente: al contrario, vengono portate alla scomparsa dalla “nostra” società, che li deruba illegalmente delle loro terre e delle loro risorse».
Nelson dice anche che il suo libro nasce dal desiderio di «cercare antiche civiltà… e di documentare la loro purezza in luoghi dove esistono ancora culture inviolate». Una visione ripresa anche dal celebre documentarista e scrittore Folco Quilici, curatore italiano della mostra, che scrive che il lavoro di Nelson ha «l’incarico di farci capire quali fantasie, quali gusti visivi e pittorici, quali segreti e quali magie componevano il tesoro umano dei primitivi».
Ma Corry e Survival contestano alla radice l’idea che il fotografo possa aver trovato culture rimaste «intatte per migliaia di anni» e la liquidano senza mezzi termini: «E’ solo una fantasia del fotografo, perché la realtà ha ben poco a che vedere con il modo in cui i popoli ritratti nel libro appaiono oggi, o come erano in passato. Le vite e le culture indigene non sono statiche né “immutate”. Definire i popoli indigeni come “primitivi” è scientificamente sbagliato perché essi non sono meno moderni di quanto lo siamo noi; anche loro, proprio come ogni società umana, cambiano e si adattano costantemente a un ambiente in perenne trasformazione. Ma, oltre che sbagliato, è anche estremamente pericoloso: governi e aziende continuano infatti a utilizzare il pretesto della loro presunta “arretratezza” per giustificare le gravi violazioni dei loro diritti umani».
“Before they pass away” è stato duramente criticato anche dai popoli autoctoni di diverse parti del mondo. Durante una protesta organizzata davanti alla Atlas Gallery di Londra, Nixiwaka Yawanawá, un indio amazzonico, ha detto: «Non stiamo scomparendo, stiamo lottando per sopravvivere. Come indigeno mi sento offeso dal lavoro di Jimmy Nelson. È vergognoso!» Il blogger neozelandese J.D The Maori ha scritto: «I Maori non fanno parte di una stirpe morente e non abbiamo bisogno di essere descritti così». Il “Dalai Lama della Foresta”, il portavoce degli Yanomami brasiliani Davi Kopenawa, stronca uil lavoro di Nelson: «Ho visto le foto e non mi sono piaciute. Quest’uomo vuole solo imporre le sue idee nelle fotografie per poi pubblicarle nei libri e mostrarle a tutti, così che le persone pensino che sia un grande fotografo. Proprio come l’antropologo americano Chagnon, manipola a suo piacere i popoli indigeni. Non è vero che i popoli indigeni stanno scomparendo. Saremo qui ancora a lungo, lottando per la nostra terra, vivendo in questo mondo e continuando a far nascere i nostri figli».
In una lettera inviata a Folco Quilici, la direttrice di Survival International Italia, Francesca Casella, scrive che «Definire i popoli indigeni come “primitivi” è scientificamente sbagliato perché essi non sono meno moderni di quanto lo siamo noi; anche loro, proprio come ogni società umana, cambiano e si adattano costantemente a un ambiente in perenne trasformazione. Ma oltre che sbagliato è anche estremamente pericoloso: governi e aziende continuano infatti a utilizzare il pretesto della loro presunta “arretratezza” per giustificare le gravi violazioni dei loro diritti umani; per promuovere programmi di “integrazione” forzata compiuti nel nome di uno “sviluppo” e di un “progresso” che in realtà non fanno altro che minare la loro autosufficienza, e distruggerli».
Ma la Casella sottolinea che, oltre all’errore di considerare le culture indigene statiche e rivolte al passato, c’è un altro serio problema: «Fin dal suo titolo, l’opera di Nelson suggerisce, erroneamente, che questi popoli stiano “scomparendo”. Il libro dovrebbe fungere da “catalizzatore per qualcosa di più grande” si legge addirittura tra le dichiarazioni di Nelson. “Se riusciamo a dar vita a un movimento mondiale che documenti e condivida immagini, pensieri e storie sulla vita indigena, attuale e passata, forse potremmo salvare dalla scomparsa una parte del nostro prezioso patrimonio culturale”. Questo vacuo mantra secondo cui il semplice fotografarli o filmarli potrebbe “salvarli”, o altre variazioni sul genere, è diventato uno dei problemi che i popoli indigeni devono affrontare oggi. Suggerisce che la loro “scomparsa” sia il risultato naturale e inevitabile della storia, di cui ci si può forse dispiacere, ma a cui non ci si può opporre. Dunque, perché non documentarli e conservarli nei musei finché possiamo? Combattere l’inarrestabile avanzata del tempo e della marea è inutile… In verità, molte minoranze, e in particolare quelle tribali, non stanno “scomparendo” naturalmente: al contrario, vengono portate alla scomparsa dalla “nostra” società, che li deruba illegalmente delle loro terre e delle loro risorse, che continua a violentarli, ucciderli o costringerli a omologarsi a società aliene».
Un questo processo che non è assolutamente inevitabile: anzi. «A dispetto di secoli di brutalità – sottolinea la Casella rivolta a Quilici – i popoli indigeni sono ancora vivi e oggi contano oltre 350 milioni di persone, il 6% dell’umanità. A differenza del passato, oggi anche la legge internazionale riconosce i loro diritti, e in ogni continente stanno lottando per mantenere la propria identità e riprendere il controllo delle loro vite e delle loro terre. Ovunque nel mondo, le loro storie riassumono in sé sia il racconto di una tragedia inutile sia quello di una commovente resistenza. Ma di tutto questo, e del ruolo cruciale che l’opinione pubblica può giocare nell’aiutarli a difendere i loro diritti e a garantire loro un futuro, nell’opera di Nelson non si trova alcuna traccia. Questi errori rendono il lavoro di questo ormai celebre fotografo come parte del problema piuttosto che una soluzione. E se le sue immagini sembrano provenire dal XIX secolo, forse è perché lo sono davvero: echeggiano una visione colonialista che è ancora oggi profondamente distruttiva per i popoli che vi si oppongono».
La Casella conclude: «Rimaniamo a disposizione per un ulteriore confronto, nella speranza che vorrete in qualche modo compensare almeno alcuni dei più gravi messaggi veicolati dall’opera. La realtà dei brutali attacchi sferrati contro i popoli indigeni, che l’ONU stesso ha definito come “i più silenziosi olocausti della storia dell’umanità”, dovrebbe essere denunciate e combattute da tutti coloro che credono nei diritti umani fondamentali»