La politica economica? Dovrebbe puntare in primis a minimizzare la sofferenza umana

Concentrando la nostra attenzione solo su prezzi e reddito abbiamo trascurato di vedere quello che c’è dietro i beni che acquistiamo, ovvero la loro qualità e i modi con i quali vengono usati il lavoro, le risorse e l’ambiente

La parola a Tommaso Luzzati, economista dell’Università di Pisa e primo autore della ricerca “Economic growth and cancer incidence”, di cui abbiamo dato conto qui: https://shar.es/1LLmCQ.

Professor Luzzati, secondo i dati presentati dal ministero della Salute, in Italia l’inquinamento atmosferico e la presenza di 44 Siti d’interesse nazionale (Sin) in attesa di bonifica rappresentano le principali preoccupazioni in relazione al pericolo cancro. Pensa siano queste le emergenze numero uno?

«Una delle osservazioni che abbiamo ricevuto da diversi colleghi e altri studiosi, sia durante lo svolgimento del lavoro che dopo la sua pubblicazione, riguarda il fatto che inquinamento e stili di vita sono un fattore di rischio non soltanto per i tumori, ma per numerose altre patologie. Credo che l’emergenza numero uno sia la ridotta consapevolezza degli “effetti collaterali” del nostro modo di vivere».

Dalla ricerca da lei condotta emerge che – a livello internazionale – i nuovi casi di cancro aumentano col reddito procapite. Significa che la crescita economica fa male alla salute, e se sì oltre quale soglia?

«È un dato consolidato che la crescita economica cambi il tipo di patologie prevalenti in un Paese. Sembrerebbe pertanto a prima vista ragionevole pensare che l’aumento dei nuovi casi di tumore sia una sorta di “buona notizia”, legata all’allungamento della vita. La nostra ricerca ha però messo in luce come questa sia solo una mezza verità: anche gli stili di vita e le condizioni ambientali hanno un ruolo importante. Non per nulla nei paesi ricchi i casi di tumori pediatrici sono molto aumentati rispetto al passato.

È però importante sottolineare che la nostra ricerca riguarda il reddito medio dei diversi Paesi, e non le condizioni individuali. Nonostante il difficile reperimento dei dati renda in genere difficile studiare il legame tra livello di reddito individuale e malattie, è abbastanza evidente come i soggetti più a rischio siano quelli più poveri, quelli meno in grado di sfuggire al degrado del loro ambiente di vita».

Quale metodologia d’analisi avete messo in campo all’interno del vostro studio per verificare le ipotesi di ricerca?

«L’Organizzazione mondiale della sanità qualche anno fa ha pubblicato delle statistiche affidabili sui tumori per un gran numero di paesi al mondo. Abbiamo così potuto analizzare questi dati seguendo metodologie statistiche relativamente standard. È stato sorprendente scoprire che sono pochissimi gli studi che mostrano qualche somiglianza con il nostro».

Secondo il noto economista ecologico Robert Costanza, nel mondo il Pil ha continuato a crescere ma il reale «benessere economico, così come stimato dal Genuine Progress Indicator (Gpi), è in realtà diminuito dal 1978». Da 40 anni, ormai. Eppure oggi tra le prime preoccupazioni del mondo – quantomeno occidentale – continuano ad esserci le ferite lasciate dalla crisi economica. Come conciliare i due fatti?

«Vi sono diverse concause. Senza ombra di dubbio, abbiamo assistito a crescenti diseguaglianze. Come ho detto prima, occorre distinguere tra reddito medio, il Pil e la sua distribuzione tra le famiglie. È vero che è aumentato il valore medio, ma questo è avvenuto soprattutto perché è aumentato il reddito dei più ricchi.

I processi di globalizzazione avviatasi alla fine del secolo scorso con la nascita del Wto hanno innescato cambiamenti della struttura economica mettendo in crisi diverse fasce della popolazione dei paesi sviluppati. Purtroppo, sono mancate politiche che governassero tali processi in modo equilibrato. A mio avviso ciò è dipeso anche dalla presenza di forti bias percettivi, ovvero sistematiche distorsioni nel giudizio, che vengono evidenziati anche nella recente teoria economica comportamentale.

Nel clima di ottimismo in cui si preferisce non guardare ai lati negativi delle cose, ci siamo “innamorati” della globalizzazione e dei mercati, illudendoci che la riduzione dei prezzi per il consumatore potesse avvenire soltanto grazie alla riduzione delle inefficienze ma senza costi sociali e ambientali. Gli esiti della mancanza di un governo equilibrato del cambiamento sono sotto gli occhi di tutti – un esempio è l’elezione di Trump negli Stati Uniti. Concentrando la nostra attenzione solo su prezzi e reddito abbiamo trascurato di vedere quello che c’è dietro i beni che acquistiamo, ovvero, la loro qualità e i modi con i quali vengono usati i fattori produttivi – il lavoro, le risorse e l’ambiente. Qual è il prezzo della riduzione dei prezzi e degli aumento di Pil in termini di posti di lavoro perduti, di peggioramento delle condizioni di lavoro, di sfruttamento dell’ambiente?

Sarebbe pertanto auspicabile mettere fine all’emergenza numero uno, ovvero smettere di guardare in modo frammentario, parziale e emotivo alle questioni socio-economiche. Sarebbe poi importante anche riflettere sui fini della politica economica. A questo proposito, a me piace ricordare la proposta di Karl William Kapp, studioso non molto conosciuto ma assai apprezzato da un importante economista italiano dello scorso secolo, Federico Caffè. Kapp, avvertendoci già nel 1950 degli alti costi sociali di un sistema concorrenziale mal regolato, propone che la politica economica miri in primo luogo a promuovere la compatibilità uomo-natura e a “minimizzare la sofferenza umana”».

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