Dalle alghe fossili indicazioni per l’adattamento ai cambiamenti climatici
[5 Settembre 2013]
Nonostante le molte evidenze scientifiche che testimoniano la correlazione tra aumento di CO2 antropica e riscaldamento globale, gli scienziati sono alla ricerca di nuovi supporti provenienti anche dal passato, per migliorare la comprensione dei cambiamenti climatici e soprattutto per sviluppare strategie di adattamento.
In tal senso le alghe pare possano essere di grande aiuto. Attraverso il progetto Pace (“Precedents for algal adaptation to atmospheric CO2: new indicators for eukaryotic algal response to the last 60 million years of CO2 variation“), finanziato dall’Ue, sono state evidenziate le prove di un collegamento molto stretto tra la diminuzione della CO2 atmosferica e il raffreddamento e le glaciazioni nel periodo tra 10 e 2 milioni di anni fa.
I ricercatori hanno presentato uno studio, pubblicato recentemente su Nature – “Late Miocene threshold response of marine algae to carbon dioxide limitation“, che fornisce la prima prova in assoluto che l’effetto serra causò un aumento delle temperature durante quel periodo, più caldo rispetto al clima di oggi e che presentava la stessa gamma di concentrazioni di CO2 attualmente previste per la fine del XXI secolo.
Finora – hanno spiegato gli scienziati – le uniche misurazioni dirette dei livelli di CO2 erano limitate agli ultimi 800.000 anni e anche se dimostravano uno stretto collegamento tra temperatura e CO2, questo si basava solo su dati provenienti da periodi più freddi di quello attuale. La ricerca in particolare è stata concentrata sull’analisi dell’adattamento delle alghe marine ai livelli di CO2 in aumento, che avviene molto più velocemente di quanto ritenuto in precedenza.
«Le alghe sono un buon indicatore delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, poiché l’anidride carbonica è fondamentale per la fotosintesi. Quando i livelli di CO2 sono bassi, la fotosintesi non può procedere velocemente, costringendo le piante a sviluppare dei meccanismi per far fronte alla situazione», hanno evidenziato i ricercatori. «Nelle alghe, questo meccanismo consiste nell’usare e nel trasportare altre forme di carbonio, come il bicarbonato, nell’oceano. Poiché questo approccio richiede maggiore energia e sostanze nutrienti, ci si può aspettare che le alghe interrompano questa raccolta aggiuntiva quando i livelli di CO2 nell’atmosfera aumentano».
I ricercatori hanno avuto l’esigenza di trovare un indicatore, una sorta di tracciante, che evidenziasse quando le alghe smettevano di usare una di queste fonti supplementari di carbonio. Alcune alghe producono delle microscopiche conchiglie che si accumulano sul fondo del mare, che possono essere usate per comprendere in che modo le stesse alghe fecero fronte alle variazioni dei livelli di CO2 quando erano in vita.
È stato dimostrato che c’è un cambiamento nella composizione chimica delle conchiglie quando la cellula algale deve usare “carburanti” supplementari come il bicarbonato (invece della CO2) allo scopo di crescere. Mediante la misurazione della composizione chimica delle conchiglie fossili cresciute nell’oceano in periodi diversi nel corso degli ultimi 60 milioni di anni, gli autori hanno dimostrato che le alghe iniziarono a dipendere fortemente da queste fonti supplementari di carbonio relativamente di recente, tra 7 e 5 milioni di anni fa: «I risultati del nuovo studio suggeriscono che la CO2 stava diminuendo e oltrepassò una soglia critica tra 7 e 8 milioni di anni fa, un risultato coerente con le prove del raffreddamento dell’oceano», ha sottolineato Heather Stoll, coautrice dello studio.
Lo studio, condotto usando sedimenti ottenuti dal Mar dei Caraibi e dall’Oceano Atlantico meridionale, suggerisce inoltre che le alghe si adattano a livelli di CO2 di circa 500 parti per milione. «Questi livelli verranno molto probabilmente raggiunti nuovamente più avanti nel corso di questo secolo a causa dell’uso di combustibili fossili, e questo adattamento in futuro potrebbe avere conseguenze per l’ecosistema nell’oceano superficiale» ha affermato Clara Bolton del dipartimento di geologia dell’Università di Oviedo, altra autrice dello studio.