I cacciatori e i danni da cinghiale
In estrema sintesi: secondo i giudici del Consiglio di Stato – che si sono espressi così in una recente pronuncia – i cacciatori si divertono, questo divertimento non può cagionare danni, se ciò accade vuol dire che non c’è stata capacità o volontà di contenere la fauna selvatica in eccesso e dunque devono pagare i danni che questa arreca
È percolata per il web una recente decisione del Consiglio di Stato, pubblicata il 5 luglio 2018, che addosserebbe ai cacciatori l’onere risarcitorio dei danni prodotti dalla fauna selvatica alla produzione agricola e zootecnica. Come di consueto, il passaparola mediatico non è mai corretto.
Prima il Tar Lazio e poi il Consiglio di Stato, infatti, sono stati chiamati a disquisire in ordine alla legittimità del Regolamento della Regione Umbria del 24 febbraio 2010 n. 5 recante la disciplina di attuazione della Legge regionale Umbria 29 luglio 2009, n. 17 sul funzionamento del «Fondo regionale per la prevenzione e l’indennizzo dei danni arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica ed inselvatichita e dall’attività venatoria».
In particolare, secondo la normativa vigente nella Regione Umbria, spetta agli Atc il compito di contenere e limitare la popolazione dei cinghiali attraverso l’attività venatoria esercitata dai cacciatori. A questi compete, dunque, predisporre i piani di gestione e realizzare i piani di abbattimento per contenere il popolamento dei cinghiali.
Le previsioni del regolamento che sono state impugnate subentrano solo nel caso in cui l’azione di contenimento degli Atc non sia riuscita appieno e i finanziamenti elargiti dalla Regione non siano risultati sufficienti.
L’art. 3, comma 3, l. r. Umbria 17/2009 prevede che “gli Atc istituiscono nel proprio bilancio un capitolo per il pagamento degli indennizzi costituito dai finanziamenti di cui al comma 1. In caso di insufficienza del fondo regionale per il pagamento completo dell’indennizzo, al pagamento della restante quota provvede autonomamente il Comitato di gestione degli Atc, con proprie risorse, reperite nell’ambito dei piani di gestione del prelievo del cinghiale”. Non è stabilito, invece, alcun limite vincolante sul reperimento delle risorse da parte degli Atc.
Sul punto, anche l’arretrata legge nazionale sulla caccia detta precise regole circa i compiti e la gestione economica degli Atc, posto che ai sensi dell’art. 14 l. 157/1992, questi devono “promuovere ed organizza le attività di ricognizione delle risorse ambientali e della consistenza faunistica, programma agli interventi per il miglioramento degli habitat, provvede all’attribuzione di incentivi economici ai conduttori dei fondi rustici per la ricostituzione di una presenza faunistica ottimale per il territorio; per le coltivazioni per l’alimentazione naturale dei mammiferi e degli uccelli soprattutto nei terreni dismessi da interventi agricoli; per il ripristino di zone umide e di fossati; per la differenziazione delle colture; per la coltivazione di siepi, cespugli, alberi adatti alla nidificazione; per la collaborazione operativa ai fini del tabellamento, della difesa preventiva delle coltivazioni passibili di danneggiamento, della pasturazione invernale degli animali in difficoltà, della manutenzione degli apprestamenti di ambientamento della fauna selvatica”. E sono comunque tenuti alla «erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché alla erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi».
Dunque, nella fattispecie decisa dai giudici di Palazzo Spada, alcun collegamento diretto tra danni e attribuzione economica di questi ai cacciatori è stato validato. Purtuttavia, la decisione contiene delle affermazioni incidentali molto significative, di cui occorre tener conto.
Innanzitutto, il fatto che «la normativa sulla caccia rende direttamente compartecipi i soggetti interessati ad un aspetto ludico della vita associata, ai fini della migliore gestione della risorsa costituita dalla selvaggina cacciabile, espressamente dichiarata bene indisponibile dello Stato». Ed inoltre che «basterebbe dunque un’attenta predisposizioni dei piani per contenere al massimo il ricorso agli interventi a carico dei cacciatori». Queste affermazioni vanno lette in profondità.
I giudici, nel caso, hanno stigmatizzato la natura esclusivamente “ricreativa” della caccia, che non può ripercuotersi a carico di terzi (le produzioni agricole e zootecniche), per cui gli organismi a cui è affidata la gestione pratica ed operativa della caccia (e cioè gli Atc) devono applicarsi con strumenti di gestione diretta (piani di prelievo) e indiretta (sistemi di prevenzione) al fine di ridurre al minimo la causazione dei danni che, qualora risultino eccessivi rispetto al fondo appositamente stanziato dalla Regione (Umbria), non possono che essere pagati dagli Atc stessi, in ragione della loro inefficace gestione. E, qualora gli Atc non dispongano di altre risorse, ne viene consequenziale, che l’unica fonte per sostenere i risarcimenti eccedenti è costituita dalle quote di iscrizione/ammissione dei cacciatori negli Atc.
In estrema sintesi, il Consiglio di Stato ha ragionato (anche) così: i cacciatori si divertono, questo divertimento non può cagionare danni, se ciò accade vuol dire che non c’è stata capacità o volontà di contenere la fauna selvatica in eccesso e dunque devono pagare i danni che questa arreca.