Come concentrarsi sulle emozioni per diffondere tensione politica
Workshop in Israele e test negli Usa stanno dimostrando come le convinzioni profondamente radicate possano cambiare per risolvere i conflitti
[27 Agosto 2018]
Secondo lo studio “Testing the impact and durability of a group malleability intervention in the context of the Israeli–Palestinian conflict”, pubblicato a gennaio su PNAS da un team di psicologi ed economisti della Stanford University, dell’università del Surrey e della Baruch Ivcher School of Psychology, bastano dei workshop di sole cinque ore ciascuno per far cambiare i punti di vista degli israeliani su molti aspetti del conflitto israelo-palestinese. Lo studio, i cui risultati sono stati ulteriormente sviluppati da Horizon, il magazine ricerca e innovazione dell’Ue, ha esaminato come, anche in conflitti che sembrano irrisolvibili, la convinzione che un gruppo possa cambiare le proprie opinioni motiva gli avversari a fare concessioni per superare l’inimicizia.
Per oltre un decennio, il principale autore dello studio, il ricercatore israeliano Eran Halperin, uno psicologo del Centro interdisciplinare Herzliya vicino a Tel Aviv, ha indagato su come le emozioni condivise da intere comunità influenzino la politica e i conflitti tra gruppi. Attraverso il progetto Emotions in Conflict, la . Halperin sta conducendo interventi basati sulla psicologia per smantellare i pregiudizi sociali, l’odio e promuovere il sostegno delle persone al processo di pace israelo-palestinese e spiega che «L’odio nasce dalla convinzione che gli altri non possono cambiare, che agiscono in modo doloroso o violento perché è nella loro natura. Quando gli israeliani pensano che i palestinesi possano cambiare, non possono odiarli più davvero».
Nello studio pubblicato a gennaio, i ricercatori hanno reclutato 508 ebrei che hanno partecipato a workshop organizzati ad Haifa, Beer-Sheva e Herzliya, divisi in classi da 12 a 20 persone che hanno ascoltato conferenze e assistito a presentazioni con prove storiche di come le comunità in altre parti del mondo hanno cambiato opinione su questioni importanti come la segregazione razziale negli Stati Uniti o anche sul cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica per quanto riguarda il fumo. «Tra una lezione e l’altra – spiega Horizon – i partecipanti sono stati invitati a riflettere sui cambiamenti nelle mentalità di gruppo di cui erano stati testimoni durante la loro vita.
Un trucco essenziale in queste sessioni formative era nascondere il loro vero obiettivo: i partecipanti non sapevano nulla delle implicazioni sociali del lavoro di Halperin e pensavano invece di partecipare a uno studio sul miglioramento delle tecniche formazione della leadership. Questo permetteva ai partecipanti ai workshop di affrontare un tema emotivo senza pregiudizi, di acquisire nuove informazioni e riconciliarle con sentimenti radicati nel loro tempo.
Halperin sottolinea che «Un partecipante su cinque ha dichiarato di sentirsi più fiducioso nella risoluzione del conflitto e più disposto a fare concessioni verso i palestinesi affinché lavorino per la pace. Una società senza speranza ha pochissime possibilità di avanzare verso un processo di pace. Questi interventi possono rimodellare le emozioni e il comportamento delle persone»
Il team statunitense, britannico e israeliano ha dimostrato che «Anche altri interventi psicologici, come cercare di capire la prospettiva dell’altra parte per entrarci in empatia, possono ridurre i sentimenti che portano alle divisioni settarie, ma il loro impatto tende a svanire nel tempo. Al contrario, concentrarsi sulla capacità di cambiamento di un gruppo è un modo più efficace di ridurre i sentimenti di rabbia e odio per periodi più lunghi». Halperin aggiunge: «E’ come dare alle persone un nuovo prisma attraverso cui vedere il mondo». Molti partecipanti hanno anche detto che nei 6 mesi successivi ai workshop le loro opinioni sono diventate più tolleranti e Halperin sostiene che «La tecnica potrebbe aiutare ad allentare le tensioni sociali anche in altri contesti», ma sollecita cautela: «Un problema degno di nota è che le persone sono generalmente reticenti quando si esprimono emozioni e opinioni politiche. Le persone sono insolitamente franche quando si parla del conflitto israelo-palestinese, Di solito le persone non amano ammettere di avere paura, e sicuramente non amano dire che odiano qualcuno. Quando studiamo le emozioni in altri contesti (negli Stati Uniti, per esempio) cerchiamo di usare misure implicite o fisiologiche dell’emozione perché le misure dirette sono semplicemente irrilevanti».
E la ricerca condotta dall’olandese Bert Bakker dell’università di Amsterdam si occupa proprio di questo: sta studiando cosa ci dicono le risposte fisiologiche sulle emozioni umane che le causano. Secondo Bakker, «L’intensità delle emozioni, più o meno piacevoli, tende ad aumentare quanto sudano le nostre mani. I muscoli delle guance responsabili del sorriso possono suggerire reazioni positive, le sopracciglia in giù segnalano quelle negative e un certo spasmo del naso esprime solitamente disgusto».
Gli psicologi utilizzano già alcuni di questi segnali per aiutare i pazienti a superare le ansietà croniche e per scoprire chi mente, ma Bakker è tra i primi ad utilizzare le risposte fisiologiche per scoprire se le emozioni influenzano le convinzioni politiche. «Negli ultimi anni – spiega – abbiamo assistito a grandi cambiamenti con conflitti politici in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. I commentatori politici hanno speculato sul ruolo delle emozioni nel polarizzare il sentimento degli elettori, ma finora l’unica intuizione che hanno avuto sono le domande del sondaggio auto-riportate». Tracciando le risposte fisiologiche dei partecipanti ai test, Bakker spera di «testare modalità complementari di rilevamento delle emozioni politiche» ed è per questo che nel 2017 è andato negli Usa di Donald Trump per studiare l’arena politoca statunitense sempre più polarizzata grazia al progetto HotPolitics che ha come partner la Temple University di Filadelfia. Questa ricerca ha utilizzato elettrodi applicati sulla faccia di oltre 200 volontari ai quali venivano fatte vedere e ascoltare immagini e frasi relative all’aborto, alle tasse, a Donald Trump e ad altri argomenti polarizzanti. Quando ai partecipanti è stato chiesto di compilare questionari sul modo in cui li gha fatti sentire ogni messaggio con una forte carica politica, i ricercatori hanno monitorato la loro reazione fisiologica in tempo reale. Bakker ricorda che «Nella ricerca precedente, avevamo riscontrato che le risposte all’indagine e le risposte fisiologiche non sempre coincidono. Ad esempio, i partecipanti allo studio a volte si sono auto-dichiarati arrabbiati per l’immigrazione mentre i loro corpi non mostravano alcuna emozione percepibile, o viceversa». Per cercare di capire queste differenze, Bakker ha inserito nel suo studio messaggi che causano risposte fisiologiche di ansia o repulsione, ma politicamente neutrali. come le immagini di ragni. Nei prossimi mesi, confronterà le reazioni alle immagini neutrali con quelle riguardanti le polemiche politiche e Horizon evidenzia che «I risultati potrebbero far luce sul fatto che i partecipanti si autodefiniscano in modo veritiero rispetto alle proprie emozioni politiche e, inoltre, quali sono le loro risposte emotive – o meno – a dimostrazione di quanto fortemente si sentano coinvolti riguardo alle questioni politiche».
Per valutare se le emozioni giochino un ruolo chiave nelle divisioni politiche emergenti nelle democrazie occidentali, nel 2019 Bakker eseguirà test fisiologici simili anche in Olanda. «Il clima politico tra Paesi Bassi e Stati Uniti è molto diverso – conclude – a non c’è motivo di aspettarsi che le ghiandole sudorifere delle persone si comportino diversamente».