A Bressanone presentato in anteprima il Blue book di Utilitalia
Acqua (già) pubblica e investimenti in crescita: a che punto è il servizio idrico italiano
Performance in miglioramento e il 97% della popolazione italiana servita da soggetti pubblici o in maggioranza pubblici, nonostante le criticità ancora aperte di un comparto dove pesa la spada di Damocle della riforma Daga. Galli: «Assisteremmo al passaggio da acqua bene comune ad acqua male comune»
[15 Maggio 2019]
Con l’avanzare dei cambiamenti climatici l’acqua è una risorsa da gestire con particolare efficienza e oculatezza in un Paese come l’Italia, esposto ad eventi meteorologici estremi che spaziano dalle ondate di calore e siccità come a tempeste sempre più intense. C’è ancora molto lavoro da fare in tal senso: i dati aggiornati a marzo dall’Istat (ma riferiti al 2015) mostrano che l’Italia spreca 4,5 miliardi di metri cubi di acqua potabile l’anno a causa delle perdite della rete idrica, che abbisogna dunque di importanti investimenti per essere ammodernata. A che punto siamo? Il Blue book elaborato da Utilitalia – la Federazione delle imprese di acqua energia e ambiente – e presentato ieri in anteprima la Festival dell’acqua di Bressanone mostra che finalmente qualche passo avanti è stato compiuto.
Mentre la tariffa è ancora tra le più basse d’Europa, in Italia cominciano infatti a crescere gli investimenti (che comunque dovranno salire ancora, fino almeno a 5 miliardi di euro l’anno). Da una prima stima (su un bacino di oltre 32 milioni di abitanti), la media annuale degli investimenti lordi effettivamente realizzati ammonta a 37 euro a persona, un dato che sale guardando al quadriennio 2016-2019, tra dati di consuntivo e di previsione: la media annuale ponderata degli investimenti lordi arriva a 45 euro ad abitante. È perciò evidente un significativo impulso legato alla programmazione 2018-2019, collegato all’introduzione della regolazione della qualità tecnica introdotta da Arera, con un significativo balzo in avanti rispetto a dieci anni fa, quando ci si attestava a circa 30 euro lordi. Si tratta di un importante risultato che riguarda però solo i gestori industriali, i quali operano grazie ad affidamenti conformi alla normativa di settore; viceversa, le analisi effettuate sugli investimenti realizzati dai Comuni ancora gestiti ‘in economia’, rilevano una sostanziale inerzia nella manutenzione e nello sviluppo delle infrastrutture idriche: la media degli investimenti è infatti di appena 4 euro ad abitante nel biennio 2016-2017. Per quanto riguarda invece le finalità di questi investimenti, gli effetti della nuova disciplina evidenziano come sull’intero quadriennio (2016-2019) gli investimenti siano destinati per il 20% alla riduzione delle perdite idriche e per oltre il 34% all’adeguamento del sistema di raccolta reflui e all’ottimizzazione degli impianti di depurazione.
Il perché è presto detto. Anche sul fronte delle infrazioni europee, inflitte all’Italia per il mancato o non corretto adempimento della direttiva europea 91/271/CEE sulle acque reflue, si segnala infatti una positiva evoluzione: gli agglomerati relativi alla prima procedura di infrazione (2004/2034), per la quale la Corte di Giustizia ha già irrogato una multa, si sono ridotti da 109 a 74; mentre per la seconda infrazione giunta a sentenza (2009/2034) sono stati sanati 27 siti irregolari su 41 (restano così 14 le aree su cui è necessario ancora intervenire); appare in miglioramento anche la situazione che riguarda il parere motivato (2059/2014), che ha visto passare il numero degli agglomerati in infrazione da 879 a 620.
Tutto questo mentre sul fronte tariffario l’Italia resta ancora uno dei Paesi con i livelli più bassi. Lo stesso metro cubo di acqua che a Roma si paga soltanto 1,69 dollari (rilevazione anno 2017), a Berlino costa 5,4 dollari, a Oslo 4,7 dollari, a Parigi 3,5 dollari e a Londra 2,6 dollari. Nonostante ciò, in alcune aree del Paese la morosità rimane elevata: il dato sui crediti rimasti non pagati a distanza di due anni (il cosiddetto ‘unpaid ratio’ a 24 mesi) presenta una media del 14% al Sud (isole comprese) con picchi del 27%, del 6% al Centro con punte di circa il 19% e infine del 2,4% in media al Nord dove al massimo si arriva al 6%.
In questo contesto è importante soffermarsi sui protagonisti della gestione del servizio idrico e dunque degli investimenti, dato che la transizione dalla gestione diretta comunale a quella industriale ha interessato tutto il Paese: in termini di popolazione ha riguardato per il 40% il Nord, per il 31% il Centro e per il restante 29% il Mezzogiorno. Tuttavia, oggi ancora 6,2 milioni di abitanti sono serviti direttamente dal proprio Comune (il fenomeno riguarda oltre 1.400 Comuni, localizzati soprattutto nelle aree del Sud, dove ricadono il 66% delle gestioni in economia). Questo naturalmente non significa che altrove l’acqua non sia (già) pubblica, anzi: da ormai un quarto di secolo la Legge 36/94 “Galli” ha profondamente innovato la normativa relativa al settore delle risorse idriche, stabilendo che tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e il consumo umano è prioritario rispetto agli altri usi, che sono ammessi quando la risorsa è sufficiente a condizione che non pregiudichino la qualità dell’acqua per il consumo umano. L’acqua in Italia è oggi a tutti gli effetti un bene comune: a cambiare a seconda dei casi è la gestione dei servizi idrici (anche la proprietà della rete idrica italiana è interamente pubblica), che può essere in mano a società 100% pubbliche, miste o quotate. Sta di fatto che il ruolo d’indirizzo della mano pubblica è egemone: già oggi il 97% della popolazione italiana è servita da soggetti pubblici o in maggioranza pubblici. A fare la differenza è semmai la gestione industriale, e dunque improntata all’efficienza, della risorsa.
Una gestione che appare adesso messa a rischio dalla proposta di legge Ac52 avanzata alla Camera da Federica Daga (M5S) – la cui discussione parlamentare è ormai ferma da qualche mese – sulla quale a Bressanone non è mancato il confronto tra i vari soggetti in campo. «Non esiste un progetto concreto in grado di superare criticità e vuoto di investimenti – ha affermato lo stesso Galli – e la richiesta di “inversione di questa legge” proposta dall’on. Daga assesta altri colpi mortali ai Comuni e alla loro autonomie in materia. Se passasse questa nuova proposta di riforma, vedremmo attuarsi un esproprio delle competenze comunali, già fortemente provate da vincoli e mancanza di fondi. Assisteremmo al passaggio da acqua bene comune ad acqua male comune».
«Il nostro è un urlo responsabile nei confronti di una proposta di legge che toglie stabilità e crea incertezze per il futuro» conferma Giovanni Valotti, presidente Utilitalia, a nome delle imprese che condividono l’idea di fondo del testo di cui è prima firmataria la grillina Federica Daga (dare cioè sempre più qualità in termini di servizi ai cittadini), ma sono totalmente in disaccordo sul modo per arrivare a questo risultato. «Credo che Federica Daga sia davvero genuina nella sua convinzione – rimarca Valotti – Per questo vorrei che si prendesse atto invece della nostra intenzione, perché la proposta di legge nascerebbe già vecchia, superata dai fatti».
Come si fa dunque in un Paese con problemi di finanza pubblica ad ottenere le risorse necessarie per investire sul servizio idrico? Secondo Chiara Braga (Pd) bisognerebbe obbligare le aziende a reinvestire gli utili negli investimenti necessari, e ha aggiunto: «Questa situazione sospesa ed incerta rende però il servizio idrico meno attrattivo nei confronti degli investimenti e degli investitori. E non è solo una mia preoccupazione, è un problema di oggi. Di tutto ha bisogno il settore idrico, fuorché uno scossone di questo genere».
Certo, resta il fatto che in Italia non è tutto a posto: «Da nord a sud abbiamo raccolto le lamentele di cittadini che non usufruiscono di consumi veri – ha dichiarato Daga – Il Movimento 5 Stelle afferma già da un anno che gli utili delle aziende andrebbero reinvestiti. Per noi dare un servizio efficiente è dare un servizio alla cittadinanza». Il rischio della riforma avanzata dalla parlamentare M5S è però che si arrivi a un risultato diametralmente opposto.