Il cambiamento climatico devasta la pesca oceanica. Nelle reti troppe meduse
[26 Settembre 2013]
I ricercatori della Rutgers State University del New Jersey da 24 anni stanno studiando come il cambiamento climatico sta influenzando gli oceani con indagini settimanali sul pesce e dicono che stanno trovando sempre meno specie settentrionali e più specie meridionali, come l’ombrina atlantica che, storicamente molto raramente si era avventurata nelle fresche acque che circondano New Jersey. Anche gli sgombri e bivalvi che un tempo erano comuni al largo delle coste del New Jersey si stanno spostando verso nord, costringendo i pescatori a rivolgersi verso altre specie.
Tom Fote, della Jersey Coast Anglers Association, ha detto al Philadelphia Inquirer: «Per quanto li riguarda, i pescatori sono interessati, il cambiamento climatico è qui. Questa è una realtà. Stiamo cambiando il nostro modo di cercare il pesce».
Un cambiamento che non riguarda solo il New Jersey, ma anche l’altra costa degli Usa, quella del Pacifico. Al largo della costa dell’Oregon, l’acidificazione degli oceani e l’ipossia, che sta producendo zone morte, carenti di ossigeno, sono due dei maggiori problemi che devono affrontare gli ecosistemi oceanici ed entrambi sono collegati ai cambiamenti climatici. Nel 2009 uno studio dell’Oregon State University pubblicato su Nature Geoscience ha determinato che l’ipossia tende ad aumentare con l’aumento delle temperature. In particolare al largo della costa dell’Oregon, dove l’ipossia iniziata nel 2002 e diventata nel 2006 anossia, cioè una zona con ossigeno a zero.
I pescatori dell’Oregon sono davvero nei guai perché l’aumento delle temperature dell’acqua e l’acidificazione degli oceani stanno causando un insostenibile aumento delle popolazioni di meduse. Un fenomeno in crescita in tutto il mondo e dovuto anche alla sovrapesca di grandi predatori come i tonni, le cui larve nello zooplancton si cibano delle larve di meduse, l’interruzione di questo basilare anello della catena alimentare, insieme alle più favorevoli condizioni determinate dal global warming ha portato all’esplosione delle meduse, con un forte impatto sull’ecosistema marino e l’intasamento delle reti dei pescatori.
Ryan Rogers, un pescatore dell’Oregon, ha spiegato a The Register Guard: «A volte prendiamo prenderemo 4.000 o 5.000 libbre di meduse. Si spandono tutto intorno. Noi veniamo punti. Ci rendono difficile mettere la rete a bordo. Dobbiamo lasciar perdere i salmoni che sono nella nostra rete».
Un pescatore di granchi ha raccontato che nel 2005, in quella che probabilmente si era trasformata in una “dead zone”, ha visto i piccoli polpi risalire lungo le cime delle sue boe per sfuggire all’acqua, mentre nelle nasse che erano attaccate a quegli stessi segnali tutti i granchi erano morti.
Storie come queste sono sempre più frequenti e confermano quel che dicono gli scienziati: negli oceani statunitensi (e non solo) è in atto un pericoloso cambiamento climatico e della stessa materia vivente, un disastro che rischia di mettere in ginocchio l’industria della pesca.
Il 13 settembre Science ha pubblicato uno studio (Marine Taxa Track Local Climate Velocities) della Princeton University dal quale viene fuori che il 70% dei “turni” in profondità delle creature marine e il 74% dei loro spostamenti in latitudine sono legati alle variazioni di temperatura dell’oceano. Un altro studio del Coral Reef Studies center della James Cook University, presentato al simposio The Ocean in a High-CO2 World hanno trovato che una maggiore acidità del mare può influenzare il cervello dei pesci, portando ad esempio il pesce pagliaccio a nuotare più lontano dai loro anemoni rifugio, il che li rende vulnerabili ai predatori, mentre i paguri nell’acqua acida ci metterebbero più tempo per ritirarsi nel loro guscio alla vista di un predatore.
Gli scienziati concordano sul fatto che un aumento delle meduse potrebbe danneggiare seriamente la catena alimentare marina, dato che queste creature gelatinose e spesso urticanti mangiano grandi quantità di plancton, una fonte di cibo fondamentale di molti pesci e cetacei, mentre l’acidificazione degli oceani è una grave minaccia per i crostacei e i molluschi in tutto il mondo, in quanto mette in pericolo la loro capacità di far crescere i loro esoscheletri e le loro conchiglie, per non parlare di quello che sta già accadendo alle barriere coralline.
La cosa comincia a preoccupare anche i politici: ad agosto, il governatore dell’Oregon, John Kitzhaber , ha incaricato 5 scienziati dell’Oregon State University di studiare le cause e gli effetti di acidificazione degli oceani e come questo fenomeno stia cambiando la costa del Pacifico. Ma anche se saranno disponibili più dati scientifici, sarà comunque difficile trovare delle soluzioni. Ken Caldera, della Stanford University e della Carnegie Institution, sta studiando se il pompaggio di sostanze “rinaturalizzanti” nell’oceano può aiutare le barriere coralline a sopravvivere nel mare sempre più acido, ma attualmente questo ed altri tipi di geoingegneria non sembrano funzionare su grande scala e l’unico modo per fermare l’acidificazione degli oceani è quello di ridurre le emissioni di CO2.