L’economia ecologica e la sfida del lavoro
Herman Daly e i paradossi dell’economia: quando la crescita ci rende più poveri?
Piena occupazione contro crescita senza occupazione
La crisi economica ha acuito il problema della povertà nei paesi occidentali, con acquisti di beni e servizi già in calo. Come reagirebbero i cittadini di fronte a una proposta politica di virare il loro modello socioeconomico verso un obiettivo di stato stazionario? È la crescita economica – sostengono gli economisti mainstream – ha l’obiettivo sociale di mantenere alti i tassi di occupazione. In realtà si scontra la crisi e la disoccupazione tecnologica, ma la risposta dell’economia ecologica per uno stato stazionario da poter raggiungere nel lungo termine rimane difficile da immaginare all’interno di un contesto globale dove l’obiettivo primario rimane la crescita economica: quale ruolo può avere un singolo paese – o anche l’Unione europea – per favorire il cambiamento? L’economista ecologico Herman Daly risponde alla riflessione lanciatagli da greenreport.it con un breve saggio.
La legge sulla completa occupazione del 1946 ha definito la piena occupazione uno degli obiettivi principali della politica degli Stati Uniti. La crescita economica è stata perciò considerata il mezzo per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione. Oggigiorno, tuttavia, questa relazione è stata invertita. La crescita economica è infatti diventata il fine e se i mezzi per raggiungere tale scopo (automazione, delocalizzazione, intensi flussi migratori) generano disoccupazione, non ci resta altro da fare che pagare questo prezzo per la tanto agognata crescita del PIL. Se vogliamo realmente la piena occupazione, dobbiamo invertire fini e mezzi. Per conseguire l’obiettivo della piena occupazione, dovremo limitare automazione, delocalizzazione e immigrazione massiccia ai periodi in cui si verifica una reale carenza di manodopera interna, come si evince da salari alti e crescenti. Inoltre, la piena occupazione può essere ottenuta anche riducendo la durata della giornata, della settimana o dell’intero anno lavorativo in cambio più tempo libero e rinunciando a un aumento del PIL.
I salari reali sono in calo da decenni, ciononostante le nostre aziende, alla costante ricerca di manodopera a basso costo, continuano a lamentarsi della carenza di manodopera. In verità, quello che le multinazionali vogliono davvero è un surplus di manodopera. In questo contesto infatti, i salari generalmente non aumentano, pertanto tutti i guadagni generati dall’aumento della produttività confluiscono nel profitto, non nei salari. Da ciò deriva un forte sostegno a favore di automazione, delocalizzazione, nonché un’applicazione eccessivamente lassista delle leggi democratiche sull’immigrazione.
Le tradizionali politiche di stimolo fanno ben poco per ridurre la disoccupazione, per diverse ragioni. In primo luogo, i posti di lavoro che i lavoratori cercano nuovamente sono stati in gran parte delocalizzati, dal momento che i datori di lavoro cercavano principalmente manodopera straniera a buon mercato. Di conseguenza, la manodopera straniera a basso costo derivante dall’immigrazione clandestina sembra essere stata accolta favorevolmente dai datori di lavoro che cercano di colmare i posti vacanti nel proprio Paese. In terzo luogo, i lavori sono stati “esternalizzati”, ossia affidati all’automazione, vale a dire ai robot in fabbrica, nonché ai consumatori, costretti a improvvisarsi cassieri, agenti di viaggio, addetti ai bagagli, bancari, benzinai, ecc. Infine, l’alleggerimento quantitativo ha mantenuto i tassi di interesse bassi e i prezzi delle obbligazioni alti, con un beneficio maggiore per i bilanci delle banche piuttosto che per l’occupazione. Gli utenti traggono vantaggio da tassi ipotecari più bassi, ma sono più penalizzati dalla riduzione dei proventi da interessi sui risparmi, il che non favorisce l’occupazione.
Questi fatti fanno propendere per un ritorno all’obiettivo originale della legge del 1946 che mirava alla piena occupazione, non alla crescita. Analizziamo quattro ulteriori motivi a favore di questo ritorno.
In primo luogo, la delocalizzazione della produzione e dei posti di lavoro non può essere giustificata come “scambio commerciale”. Il bene la cui produzione è stata delocalizzata viene venduto negli Stati Uniti per soddisfare lo stesso mercato che prima veniva servito dalla produzione interna. La delocalizzazione determina un incremento delle importazioni statunitensi e, dal momento che nessun prodotto viene esportato in cambio, essa si traduce anche in un aumento del disavanzo commerciale. Poiché oggigiorno la produzione dei beni avviene perlopiù all’estero, gli sforzi compiuti negli Stati Uniti per rilanciare l’economia stimolano in larga parte le importazioni statunitensi e l’occupazione all’estero. Di conseguenza, la domanda di manodopera statunitense cala, provocando la diminuzione del tasso di occupazione e dei salari. E assurdo che la delocalizzazione debba essere difesa in nome del “commercio libero”. In realtà non avviene alcuno scambio di beni. L’assurdità è aggravata dal fatto che la delocalizzazione comporta lo spostamento di capitali all’estero e l’immobilità internazionale dei capitali è una delle premesse su cui si fonda la dottrina dei vantaggi comparati; tra al’altro la politica del libero scambio si basa proprio sul vantaggio comparato! Se crediamo veramente nei vantaggi comparati e nel libero scambio, allora dobbiamo porre dei limiti alla mobilità dei capitali e alla delocalizzazione.
In secondo luogo, per quei lavori che non sono stati ancora delocalizzati, o che non possono esserlo facilmente (ad esempio, baristi, cameriere, giardinieri, operatori sanitari, ecc), è ormai disponibile manodopera straniera a basso costo derivante dall’immigrazione clandestina. Molti datori di lavoro negli Stati Uniti sembrano accogliere favorevolmente gli immigrati clandestini. Perlopiù si tratta di persone buone e oneste, disposte a lavorare per un misero salario e impossibilitate a lamentarsi delle condizioni di lavoro a causa del loro status di clandestini. Questi fattori generano divisioni all’interno dei sindacati, nonché il crollo dei salari della classe operaia americana, la quale, tra l’altro, include molti immigrati regolari. Il governo federale, da sempre sensibile agli interessi di coloro che offrono posti di lavoro, non si è per nulla impegnato a far applicare le nostre leggi sull’immigrazione.
In terzo luogo, l’automazione del lavoro in fabbrica, dei servizi in banca, dei rifornimenti presso le stazioni di servizio, ecc.. viene solitamente elogiata come una valida soluzione, frutto del progresso tecnologico, per risparmiare lavoro. In un certo senso, tutto ciò è vero, ma l’automazione comporta anche la sostituzione del capitale al lavoro, nonché il trasferimento degli oneri relativi alla manodopera ai consumatori. Questi ultimi non ricevono nemmeno un salario minimo per il lavoro extra, pur accettando la dubbia affermazione secondo cui essi beneficiano di prezzi più bassi in cambio del self-service. I tradizionali contatti umani diminuiscono e il commercio diventa più sterile, impersonale e digitalizzato. In particolare, si riducono drasticamente le interazioni quotidiane tra persone appartenenti a classi socio-economiche diverse.
Infine, una “Tobin tax”, ossia una piccola tassa percentuale su tutti i mercati azionari, mercati obbligazionari e operazioni di cambio ostacolerebbe operazioni ad alto tasso di rischio, speculazione e giochi d’azzardo nel casinò di Wall Street, favorendo al contempo la riscossione di introiti utili a colmare il deficit federale. Queste misure potrebbero essere adottate in tempi brevi. A lungo termine dovremmo passare a riserve obbligatorie al 100% sui depositi a vista, ponendo così fine alle alchimie con cui le banche creano denaro dal nulla e lo prestano con interessi. Ogni dollaro prestato da una banca sarebbe un dollaro precedentemente risparmiato dal proprietario di un deposito vincolato, rispettando il classico equilibrio economico tra astinenza dal consumo e nuovi investimenti. La maggior parte delle persone crede erroneamente che ora le banche funzionino così. La nostra massa monetaria passerebbe dall’essere prevalentemente un debito finanziario delle banche private, a un debito pubblico non finanziario. Il denaro dovrebbe essere un’utilità pubblica (un’unità di conto, un bene rifugio o un mezzo di scambio), non uno strumento attraverso il quale le banche richiedono ai clienti un pagamento di interessi non necessario, proprio come un casello privato su una strada pubblica.
Manodopera a buon mercato e strampalate politiche economiche in nome della “crescita e la competitività globale” si basano sulle classi e pertanto sono elitarie. Persino sotto il falso mito del libero commercio, globalizzazione, apertura delle frontiere, innovazione finanziaria e automazione rimangono pur sempre politiche di crescita per mezzo di manodopera a basso costo e illusione economica. Chiediamoci come mai la distribuzione del reddito negli Stati Uniti è diventata così iniqua. Ci è stato sempre risposto che la colpa è della crescita troppo lenta, la sola causa di tutti i nostri problemi! Il fatto che staremmo meglio se fossimo più ricchi è una verità lapalissiana. A questo punto la domanda è: un’ulteriore crescita del PIL ci renderebbe davvero più ricchi, oppure ci sta rendendo più poveri, incrementando gli innumerevoli costi della crescita a un ritmo più veloce rispetto ai benefici rilevati? Questa semplice domanda è un tabù tra economisti e politici, per timore che si scopra che i benefici della crescita si limitano all’1% della popolazione, mentre l’aumento dei costi viene “condiviso” con i poveri, le generazioni future e le altre specie.
Non hai letto la prima parte dell’intervista a Herman Daly? La trovi qui
Da CASSE. Traduzione a cura di Valentina Legnani, Valentina Legnani Traduzioni
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