I mega-incendi in Australia non sono la nuova normalità, sono la transizione verso impatti climatici peggiori

Il cambiamento climatico aumenta fortemente il rischio di incendi boschivi, anche nel Mediterraneo

[14 Gennaio 2020]

Lo studio “Climate Change Increases the Risk of Wildfires” pubblicato su ScienceBrief Review da un team di ricercatori britannici delle università dell’East Anglia (UEA) e di Exeter, Imperial College London e Met Office Hadley Centre e del CSIRO Oceans and Atmosphere australiano, dimostra che «I cambiamenti climatici indotti dall’uomo promuovono le condizioni dalle quali dipendono gli incendi, aumentandone la probabilità».
Alla luce dei giganteschi incendi australiani degli ultimi mesi, gli scienziati hanno condotto una Rapid Response Review di 57 articoli rivisti sulla base del Fifth Assessment Report dell’IPCC del 2013 e dicono che «Tutti gli studi mostrano collegamenti tra i cambiamenti climatici e l’aumento della frequenza o della gravità delle condizioni meteorologiche favorevoli agli incendi – periodi con un alto rischio di incendio a causa di una combinazione di alte temperature, bassa umidità, scarsa pioggia e spesso forti venti – sebbene alcune in alcune regioni si m notino anomalie».
Il principale autore dello studio, Matthew Jones, dell’UEA, ha detto a BBC News: «Complessivamente, i 57 articoli esaminati mostrano chiaramente che il riscaldamento indotto dall’uomo ha già portato a un aumento globale della frequenza e della gravità della stagione degli incendi, aumentando i rischi di incendi. Questo è stato osservato in molte regioni, tra cui gli Stati Uniti occidentali e il Canada, l’Europa meridionale, la Scandinavia e l’Amazzonia. Il riscaldamento indotto dall’uomo sta anche aumentando i rischi di incendio in altre regioni, tra cui la Siberia e l’Australia».
Per quanto riguarda l’Europa meridionale / Mediterraneo. I modelli suggeriscono che gli impatti del cambiamento climatico antropogenico sugli incendi, gli estremi meteorologici e lunghezza della stagione degli incendi sono emersi negli anni 1990 e diversi studi individuano un legame emergente tra le ondate di caldo, siccità e incendi nell’Europa meridionale.
In Amazzonia, per fare un collegamento tra incendi e cambiamenti climatici e siccità indotta bisogna tener conto anche della deforestazione, ma è sicuro che i cambiamenti climatici che portano a condizioni favorevoli agli incendi sono aggravati dalla frammentazione del territorio causato dalla deforestazione.
Per la Scandinavia si è scoperto che gli incendi del 2018 in Svezia sono stati di circa il 10% più probabili nel clima attuale rispetto al clima preindustriale e che in futuro è probabile un prolungamento della stagione degli incendi.
Negli Usa e nel Canada occidentali la stagione degli incendi si è estesa insieme all’aumento dei fenomeni meteorologici estremi e gli scienziati avevano previsto che, entro il 2020, il verificarsi di mega-incendi in california avrebbe di gran lunga superato la media e la variabilità naturale precedenti. Inoltre, già nel 2016 è stato scoperto che gli incendi di Fort McMurray erano da 1,5 a 6 volte più probabili a causa del cambiamento climatico antropogenico. Gli scienziati statunitensi hanno anche scoperto che nel 2003-2012 l’area bruciata nel west Usa era di 10 volte maggiore rispetto a quella del 1973-1982. Nel 2015 i mega-incendi in Alaska si sono verificati in condizioni che aumentavano dal 34 al 60% la probabilità di incendi boschivi dovuta ai cambiamenti climatici di origine antropica.
In Siberia negli ultimi decenni sono aumentati sia il numero degli incendi boschivi che l’estensione dell’area bruciata e i modelli suggeriscono che l’aumento della frequenza e la gravità delle condizioni climatiche favorevoli agli incendi saranno più pronunciati nel nord dell’emisfero boreale e i devastanti incendi degli ultimi anni, previsti dagli studi, vanno ben oltre la variabilità naturale della stagione degli incendi.
Nell’Australia che sta ancora bruciando, già nel 2014 uno studio avvertiva che «I dati osservazionali suggeriscono che gli estremi climatici nella stagione degli incendi stanno già diventando più frequenti e intensi». Ma studi del 2016 e del 2018 evidenziavano che «Tuttavia, la divergenza tra segnali antropogenici e forcing naturali è più debole, e più difficile da diagnosticare, rispetto ad altre regioni a causa della forte variabilità regionale e inter-annuale nell’effetto dell’El Niño–Southern Oscillation sulla stagione degli incendi». Anche altri importanti modelli meteorologici regionali, come il Ocean Dipole (IOD) and the Southern Annular Mode (SAM), contribuiscono alla variabilità naturale delle condizioni meteorologiche favorevoli agli incendi, ma gli studi più recenti evidenziano che i loro effetti sono sempre più sovrapposti a condizioni meteorologiche più favorevoli de «Si prevede che gli impatti dei cambiamenti climatici antropogenici sugli estremi meteorologici e sulla lunghezza della stagione degli incendi emergeranno al di sopra della variabilità naturale negli anni ’40».
Analizzando tutti i modelli, emerge che, entro la fine di questo secolo alle alte latitudini settentrionali la stagione degli incendi durerà in media 20 giorni in più e che, entro la fine del secolo, in tutta Europa gli attuali mega-incendi da “uno ogni 100 anni” in termini di superficie bruciata, si verificheranno ogni 5 – 50 anni, La modellazione del rischio di incendi in ‘Alaska indica un aumento di 4 volte nella probabilità di mega-incendi ogni 30 anni entro il 2100, a causa di cambiamenti climatici.
Presentando lo studio, Richard Betts, responsabile della ricerca sugli impatti climatici presso il Met Office Hadley Center, ha spiegato che « la temperatura media in ‘Australia è di circa 1,4° C più calda rispetto alla temperatura media globale nel periodo preindustriale e che «Le temperature a dicembre in Australia, che si sono verificate di recente, sono estreme per ora, ma sarebbero normali in un mondo con un riscaldamento che aumenta di 3 gradi, Il clima favorevole agli incendi si presenta naturalmente ma sta diventando più severo e diffuso a causa dei cambiamenti climatici. Limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2° C contribuirebbe ad evitare ulteriori aumenti del rischio di condizioni meteorologiche estreme».
Attualmente le temperature medie globali sono aumentate di circa 1° C rispetto a quelle del 1850 e, anche con gli attuali impegni dei governi per limitare le emissioni di CO2, il mondo è sulla strada per arrivare a circa 3° C di riscaldamento entro la fine di questo secolo.
Una delle autrici dello studio, Corinne Le Quéré, dell’università dell’East Anglia, ha detto a BBC News che «Quando si tratta di incendi e ondate di caldo, la gente vede con i propri occhi il segnale del riscaldamento globale. Questi sono gli impatti che stiamo vedendo per un grado di cambiamento climatico globale. L’impatto peggiorerà se non facciamo ciò che serve per stabilizzare il clima mondiale. E ciò che serve è ridurre la CO2 e altri gas serra di lunga durata a emissioni net-zero, Se non lo facciamo, avremo impatti molto peggiori, quindi quello che stiamo vedendo in Australia non è la nuova normalità, è una transizione verso impatti peggiori».