Come scegliamo di salvaguardare una specie invece di un’altra? Carisma e cultura pop (VIDEO)

Animali immaginari per capire perché alcune specie vere sono più popolari di altre

[8 Maggio 2020]

Nel mondo oltre il 29% delle specie è minacciato di estinzione e dal 1900 si sono estinti 477 vertebrati. Anche per questo ogni anno le persone in tutto il mondo donano centinaia di milioni di euro e dollari per impedire che altri animali scompaiano. I ricercatori sanno che è più probabile che la gente doni denaro per salvare gli animali grandi e carismatici, come la tigre, invece di altri meno vistosi. Ma perché alcuni animali ricevono molta più attenzione alla conservazione e finanziamenti di altri? E’ una questione della quale si stanno occupando, grazie ai finanziamenti della National Geographic Society, Polly Curtin e Sarah Papworth del Department of Biological Sciences della Royal Holloway University of London che hanno da poco pubblicato su Conservation Letters lo studio “Coloring and size influences preferences for imaginary animals, and can predict actual donations to species-specific conservation charities” nel quale hanno scoperto che i partecipanti a una serie di test «preferivano animali immaginari grandi, multicolori e dai toni freddi» e poi hanno utilizzato queste caratteristiche per prevedere il numero di donazioni fatte per salvaguardare gli animali reali.

Curtin e Papworth spiegano che «Come per tutti gli studi di questo progetto, abbiamo utilizzato animali immaginari disegnati dall’artista Rory McCann.  Quando si cerca di indagare sul perché alcuni animali sono più popolari di altri, è difficile determinare se le preferenze delle persone sono dovute all’apparenza dell’animale o a causa di cose che le persone conoscono degli animali, come quanto siano rari. Poiché gli animali che utilizziamo sono fittizi, possiamo determinare se le differenze nelle preferenze sono dovute all’aspetto degli animali stessi o alle informazioni che forniamo sugli animali immaginari».

Infatti, le finte bestie utilizzate nello studio aiutano a rivelare quali tratti estetici ci rendono gli animali più attraenti e potrebbero aiutare gli ambientalisti a capire come ottenere sostegno anche per le creature meno appariscenti.

La Papworth di solito lavora con scimmie e altri primati e ha detto ad Anthropocene: «Sono animali popolari e spesso servono come specie di punta, per attirare l’attenzione sugli sforzi di fundraising. Mi sono interessata al perché ci piacciono questi animali in particolare, con l’obiettivo di sperare di identificare i modi in cui gli animali che sono in genere meno popolari potrebbero essere promossi, in un modo da poter aiutare anche la loro conservazione».

Già numerosi studi si erano occupati del perché ci piacciono così tanto alcuni animali e altri no e quasi tutti hanno citato perticolari fisici come le grandi dimensioni corporee, gli occhi frontali come i nostri, la somiglianza con i cuccioli, Ma, mentre molte specie si adattano a questo disegno di legge, come le tigri i panda, è anche vero che sono molto più v conosciute di altre. La Papworth spiega che lo studio voleva «Cercare di capire se sono famosi perché sono attraenti o attraenti perché sono famosi. E’ come districare un gomitolo che si autoalimenta».

Per questo le due ricercatrici hanno deciso di provare e con “animali” inesistenti e quindi non famosi e, per creare questo serraglio immaginario stile Pokemon, hanno prima elencato una serie di tratti estetici che erano stati studiati nelle ricerche precedenti, come dimensioni, numero di colori e direzione degli occhi.      Poi il muralista  Rory McCann ha remixato questi tratti per dar vita a centinaia di creature diverse. Piccole e tricolori, con la pelle liscia e la vista bonoculare, oppure grosse e colorate uniformemente e  con gli occhi rivolti lateralmente.  Una volta creato il bestiario immaginario, le ricercatrici hanno presentato coppie di animali diversi ai partecipanti al test, chiedendo loro quali delle due bestie trovassero più attraente e quale avrebbero preferito salvare dall’estinzione.

Dopo centinaia di questi test, «Un un algoritmo ha individuato le caratteristiche più popolari», spiega ancora la Papworth e la caratteristica vincente è risultata la colorazione: «Gli animali finti multicolori erano circa il 50% più popolari di quelli a un colore – sottolinea la  Papworth – Anche gli animali più grandi erano anche più popolari, così come i toni più freddi, come il blu e il viola». Mentre, anche se altri studi dicono che siano importanti per gli esseri umani , la direzione degli occhi e la pelliccia non hanno fatto una grande differenza.

Trasferendo queste preferenze nel mondo reale, Curtin e Papworth hanno scoperto che «Quando è stata data loro la possibilità di donare a una vera organizzazione consrvazionistica, i partecipanti al sondaggio avevano maggiori probabilità di scegliere quelle che aiutavano animali di grandi dimensioni e/o multicolori, come le tigri e le api».

Ma, come scrive Cara Giaimo su Anthropocene, «Le specie piccole e monocromatiche, e coloro che le amano, non devono rinunciare alla speranza. La bellezza è soggettiva e non è tutto». La Papworth sta concludendo uno studio simile che fornisce agli animali immaginari tratti più ampi, come il ruolo svolto negli ecosistemi e le dimensioni della popolazione, per vedere se questo influisce sul modo in cui le persone li vedono.

Spesso si tratta solo di una questione di prospettiva. Lo studio “Effects of amusing memes on concern for unappealing species”, pubblicato il 29 aprile su Conservation Biology da un team internazionale di ricercatori ha scoperti che dei meme divertenti sulla nasica (Nasalis larvatus) che era considerata la scimmia più brutta del mondo hanno aiutato molto a stimolare i finanziamenti per la sua conservazione. La Papworth in futuro vorrebbe indagare sull’importanza dei nomi degli animali: «Studi con animali reali suggeriscono che nomi carini o divertenti rendono le specie migliori per le persone» e vuole espandere il suo campo di studio per includere piante e “mini-bestie” come gli insetti.

La Papworth conclude: «Spero che i risultati di questi e altri studi aiuteranno gli ambientalisti a capire come mostrare le specie nella loro luce migliore, o almeno la più redditizia. Non tutto è perduto per gli animali “brutti”. Ma forse hanno bisogno di un piccolo aiuto extra per attirare l’attenzione della gente».

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