Dalla Colombia la testimonianza della leader Maria Cristina Fuentes
Viaggio a Guajira, dove il carbone si è portato via la terra e l’acqua sacra agli indigeni
«Quello che una volta era un territorio fertile è ora un enorme buco che serve solo per estrarre carbone»
Maria Cristina Fuentes è una leader indigena Wayúu della regione della Guajira, Colombia: è nata nella comunità di Tamaquito II, situata a sud del Dipartimento. A differenza del nord, la parte meridionale della Guajira ha terreni adatti ai raccolti e sufficienti fonti d’acqua per l’agricoltura e il bestiame. Per molto tempo è stata una regione produttiva, largamente dedita a queste attività. Con l’avvento dell’estrazione mineraria le cose sono cambiate e l’economia della regione ormai è incentrata su questo business inquinante.
La Guajira è infatti un territorio ricco di carbone e da qui si estrae il 90% della produzione nazionale da almeno tre decadi. Attualmente sonocirca 500 le società minerarie che hanno in usufrutto circa 278mila ettari di terra ed estraggono più di 46 milioni di tonnellate di carbone da siti a cielo aperto. Tra queste imprese si incontrano nomi noti e ricorrenti di multinazionali che operano in America Latina: la Drummund, la Colombian Natural Resources (CNR), la Correjon e, naturalmente, la belga Prodeco – Glencore.
Nella Guajira è la Correjon che estrae circa 60 milioni di tonnellate l’anno da una miniera che si trova nella valle del rio Rancherìa, luogo sacro alla popolazione indigena degli Wayúu a cui appariene Maria Cristina. Nella sua testimonianza ricorda il suo territorio com’era una volta, le trasformazioni causate dall’estrazione mineraria e le visioni che ha ancora per la sua comunità per il futuro.
“Mi chiamo Maria Cristina Fuentes Pushaina, sono nata nella comunità indigena di Tamquito II, il mio luogo di origine. Poche persone al mondo dovrebbero fare la precisazione di essere nate nel luogo di origine della loro comunità, tuttavia, per molte comunità indigene e afro-discendenti della Guajira, è una precisazione necessaria. A causa dell’espansione mineraria nel Dipartimento, molte comunità sono state “reinsediate” in modo forzoso e spostate dai loro luoghi originari. Oggi, pur mantenendo il nome della loro comunità, vivono in un luogo diverso e il territorio che ha dato loro vita non appartiene più a loro. A volte non esiste nemmeno più, o almeno non come lo ricordano. Quello che una volta era un territorio fertile è ora un enorme buco che serve solo per estrarre carbone.
Sono la terza di tredici sorelle, vengo da una famiglia numerosa. Del mio territorio ancestrale ricordo un ambiente sano e senza restrizioni di movimento: potevamo uscire e goderci la nostra terra. I miei genitori hanno piantato e raccolto mais, ahuyama, pin, hanno coltivato la terra per nutrirci e non c’era nè povertà nè fame. Sono cresciuta studiando nelle vicine comunità di Roche e Tabaco, oggi nessuna di queste comunità esiste”.
Il caso della comunità di Tabaco è ancora più grave, poiché quando è stata sfollata dal suo territorio non è stata nemmeno reinsediata, i suoi abitanti sono stati costretti a cercare casa e sostentamento, oggi vivono sparsi nei comuni della Guajira.
Quando si parla di estrazione mineraria, Maria Cristina racconta uno a uno gli effetti che ha lasciato sul suo territorio: “Eravamo ricchi, l’agricoltura, l’artigianato e la cultura erano la nostra ricchezza. Abbiamo vissuto dello scambio con le comunità e dei legami di unione e solidarietà che avevamo con loro, ma oggi tutto è finito. L’estrazione mineraria ci ha influenzato socialmente, economicamente, spiritualmente e sulla salute. Hanno distrutto la nostra Madre Terra e hanno violato i nostri diritti come popoli etnici”.
Oltre a questo, Maria sottolinea un danno che non è sempre visibile: “Non ci sono leggi e non ci sono modi per quantificare il danno culturale che il settore minerario ci ha arrecato, lo sradicamento del nostro territorio e delle nostre radici, l’interruzione del legame con Madre Terra come ci avevano insegnato i nostri antenati. Intorno a questo legame, i miei nonni, nonne, zie e genitori sognavano il futuro delle nostre comunità e noi abbiamo imparato da loro. Le donne Outsu, le nostre guide spirituali, trovavano nel territorio gli elementi per sognare, curare e guidare i vari aspetti delle nostre culture. Oggi niente di tutto questo è possibile: il legame che avevamo un tempo non esiste, non abbiamo gli spazi o i luoghi adatti a farei nostri rituali, non abbiamo gli elementi per guidare il corso della nostra comunità. L’acqua era il centro della nostra cultura e ci è stata portata via. I fiumi, i torrenti e le sorgenti in cui fiorirono le nostre pratiche ancestrali non esitono più”.
Sì, perchè l’acqua è ciò che più di tutto, l’estrazione mineraria, si è portata via: fiumi, torrenti e fonti d’acqua sono state privatizzate e utilizzate per la produzione o inquinate con gli scarti della produzione stessa. Di fatto non sono più accessibili alle comunità.
Per questo Maria Cristina, portavoce della sua comunità, dice: “Vogliamo che l’estrazione mineraria cessi, che i diritti delle etnie e della diversità siano tutelati, per tornare a come si viveva prima. In un ambiente incontaminato”.
Maria Cristina è tra le donne attiviste per i diritti umani e ambientali di Argentina, Perù e Colombia, che partecipa alla campagna “Agua para los pueblos!” contro la piaga dell’estrattivismo che da decenni ormai colpisce tutta l’America Latina e in particolare quelle zone gestite in modo comunitario da popolazioni indigene basate su valori ancestrali.
“Acqua per i popoli!”cerca di denunciare le violazioni commesse dalle società che inquinano, distruggono e monopolizzano l’acqua e di rafforzare le strategie per creare resistenza e buon vivere attuate dalle popolazioni indigene, tradizionali e contadine in difesa del loro diritto all’acqua, alla terra, al territorio e alla vita.
In ciascuno dei quattro paesi in cui si svolge la campagna, sono i partner del progetto a cui partecipa anche Cospe “Principi Guida. Verso meccanismi di difesa per la protezione dei diritti umani in America Latina”, a sostenere le iniziative delle comunità protagoniste dell’azione internazionale: Beienaveturados los probres in Argentina, Justiça nos Trilhos in Brasile, Pensamiento y Acción Social (Pas) in Colombia e CooperAcción in Perù.
I “Principi Guida” sono stati approvati dall’Onu nel 2011, e sebbene non siano vincolanti in materia di protezione dei diritti, costituiscono comunque un importante avanzamento nella costruzione di una democrazia globale, perché permettono agli Stati di riconoscere formalmente che le imprese multinazionali hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani. Nei paesi in cui si svolgono il progetto e la campagna, siamo ancora molto lontani dalla loro applicazione, ma è stato fatto e si sta facendo un lungo lavoro di consapevolezza tra le popolazioni di questi paesi e un lavoro di advocacy con le loro istituzioni, perché questi principi siano conosciuti e applicati al più presto.