Peggiorano i saldi commerciali del Paese nelle “tecnologie low carbon”
Il Green deal italiano passa dagli investimenti in ricerca, a cominciare da quella di base
Per concretizzare la transizione energetica non basta creare nuovi posti di lavoro, servono anche solide realtà industriali per ridurre la “dipendenza tecnologica” che frena lo sviluppo
Il lancio della strategia del Green deal e il suo rafforzamento nell’ambito del piano Next Generation Eu, messo a punto in primis come risposta alle gravi conseguenze economiche determinate dallo scoppio della crisi pandemica, hanno messo in chiaro che l’obiettivo della decarbonizzazione energetica rappresenta la nuova sfida dello sviluppo europeo.
Al di là delle pur gravi necessità di sostegno al crollo del reddito, il varo di Next Generation Eu ha infatti delineato una prospettiva di intervento proiettata nel lungo periodo, in cui si coglie l’importanza della rivoluzione tecnologica guidata dall’utilizzo delle fonti rinnovabili per la produzione di energia, e la grande trasversalità dell’impatto delle tecnologie digitali su un’organizzazione più sostenibile dei sistemi produttivi, prefigurando in definitiva una trasformazione strutturale dell’attuale assetto industriale di tutta l’area.
Il cambio di passo che si impone all’Europa è dettato d’altra parte anche dalla rapidità con cui a livello mondiale si sta diffondendo l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e dalla capacità di innovazione manifestata in questo settore dai maggiori paesi asiatici, e in particolare dalla Cina. Uno scenario tanto più critico quanto più si considera lo straordinario incremento che proprio la Cina ha fatto registrare nell’investimento in ricerca nelle tecnologie per la decarbonizzazione nel quadro di un più generale e sostanziale impegno verso un aumento complessivo delle risorse dedicate alla ricerca.
Gli ultimi dati del 2018 ci dicono infatti la Cina ha superato l’Europa nella spesa in ricerca globale, sia in termini in termini assoluti che in rapporto al Pil (Oecd, Main science and technology indicators), con l’obiettivo dichiarato nell’ultimo piano quinquennale (2021-2025) di ridurre in maniera significativa l’importazione di tecnologie dall’estero, puntando di fatto “all’autosufficienza tecnologica” intesa quale principale pilastro dello sviluppo economico del paese.
In che misura, è lecito allora chiedersi, la nuova strategia europea in materia di transizione energetica potrà tradursi in un successo, tenuto conto non solo del ritardo tecnologico complessivo accumulato ma anche delle forti divergenze presenti tuttora tra i diversi paesi membri sotto il profilo delle potenzialità innovative? È evidente, infatti, che sul processo della transizione energetica si va giocando gran parte del superamento di un modello europeo che finora si è mostrato inadeguato non solo al sopraggiungere di shock economici di diversa natura (Saraceno, 2020, La riconquista), ma anche a garantire in prospettiva uno sviluppo coeso di tutta l’area secondo quelli che erano gli obiettivi del progetto comunitario originario.
Si potrebbe anzi dire che il perdurare dello stato di crisi a livello europeo abbia funzionato da detonatore di divergenze preesistenti, particolarmente accentuate proprio dal punto di vista tecnologico. Poco prima dello scoppio della recente crisi pandemica non tutti i paesi avevano d’altra parte recuperato i livelli di reddito relativi al periodo precedente la crisi del 2007-2008 e ciò ha in qualche modo condizionato la stessa entità dell’assegnazione dei fondi in capo a Next Generation Eu; al contempo da più parti si sostiene (e non a torto) che le “condizionalità” presenti all’interno del piano circa la destinazione degli interventi di spesa possono rappresentare una leva fondamentale nel dirigere efficacemente lo sforzo complessivo dell’investimento.
Tuttavia, tale costrutto può di per sé costituire una condizione necessaria, ma tutt’altro che sufficiente affinché si attivi quel circuito virtuoso che riposa nelle aspettative di un nuovo “ordine europeo”. Le criticità più specifiche sulle quali intervenire non possono infatti che essere definite nell’ambito della realtà di ciascun paese e in questo senso la messa a punto dei piani nazionali, la cui presentazione è prevista entro aprile, appare del tutto decisiva. È fuor di dubbio, comunque, che un nodo sensibile (come visto) e che non può essere trascurato nell’impianto complessivo di ciascun piano è rappresentato dal “capitolo ricerca”. E ciò in misura tanto più consistente quanto maggiori sono le carenze di cui ciascun paese soffre.
In questo senso il caso dell’Italia offre più di uno spunto di riflessione a partire dall’attuale stato di avanzamento del processo di decarbonizzazione.
Sotto il profilo dei consumi energetici l’Italia appare infatti soddisfare i principali “obiettivi climatici” in conseguenza del forte calo dell’attività economica. Allo stesso tempo è però possibile rilevare un peggioramento dei saldi commerciali nelle “tecnologie low carbon” in ragione di un progressivo aumento delle importazioni, in aperta controtendenza con quanto registrato per il resto dell’interscambio estero.
La capacità di generare investimenti decisivi per un rilancio dell’economia del Paese in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione non dovrà pertanto misurarsi solo con la dinamica di creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche con la realizzazione di solide realtà industriali in questi settori, che mettano in grado il paese di “presidiare” le tecnologie low carbon, riducendo drasticamente una “dipendenza tecnologica” che si costituirebbe come nuovo vincolo allo sviluppo.
Per questo sarà allora tanto più importante iniziare ad affrontare il nodo della spesa in ricerca, a cominciare da quella di base, che continua ad essere nel suo complesso sottodimensionata anche rispetto agli stessi standard europei; un’istanza già reclamata a gran voce dagli autorevoli firmatari del recente appello etichettato come “Piano Amaldi” ma che non sembra ancora trovare adeguato ascolto.