Localizzazione del deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi: dubbi e criticità non trascurabili nell’applicazione dei criteri
Dal rischio idrogeologico all’analisi del rischio di incidente rilevante fino alla conservazione delle aree protette, le prime anomalie riscontrate da Legambiente
[23 Aprile 2021]
Legambiente interviene sulle problematiche emerse durante le prime valutazioni dei territori alla Carta delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico dei rifiuti radioattivi (CNAPI), e sottolinea che «35 anni dopo il disastro di Chernobyl, 34 dal referendum con cui gli italiani votarono l’uscita del nostro Paese dal nucleare, il tema dell’individuazione delle aree idonee a ospitare un deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi continua a tenere banco e a suscitare le reazioni dei territori e delle comunità potenzialmente interessate dalla sua realizzazione».
Un’opera ritenuta necessaria da Legambiente per i rifiuti a media e bassa attività, mentre quelli ad alta, viste le piccole quantità prodotte dal nostro Paese, dovranno essere ospitati all’estero nel deposito internazionale previsto dalla direttiva europea.
Infatti, il Cigno Verde, sin dai primi anni della sua attività, ha chiesto a gran voce la chiusura dell’eredità del nucleare: «Tecnologia pericolosa, dagli effetti imprevedibili e potenzialmente devastanti a lunghissimo termine e raggio, come testimoniano quelli che hanno segnato le sorti del centro dell’odierna Ucraina, al confine con la Bielorussia».
Lo scorso gennaio, la tanto attesa pubblicazione della CNAPI (la Carta nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico), rimasta secretata per sei anni in cui sono avvicendati tre governi, ha aperto il percorso verso una soluzione al problema dei rifiuti radioattivi, oggi ammassati in depositi inidonei e pericolosi, oltre che smaltiti illegalmente.
Percorso che, tuttavia, presenta alcune problematiche comuni emerse durante i primi approfondimenti alla CNAPI fatti da Legambiente e «delle quali è fondamentale tenere conto fin da subito, affinché si arrivi a una localizzazione il più possibile corretta. Dal rischio idrogeologico a quello di incidente rilevante, dalla contemplazione delle aree protette all’adozione di criteri più chiari e trasparenti, sono diversi gli elementi da considerare attentamente nell’iter per la realizzazione del Deposito Nazionale che, di fatto, potrebbe rappresentare l’occasione per portare a compimento quest’opera pubblica necessaria ma molto osteggiata».
Il presidente nazionale di Legambiente dichiara Stefano Ciafani, ricorda che «Il prossimo 26 aprile saranno trascorsi esattamente 35 anni dal disastro di Chernobyl, il più grave incidente nella storia del nucleare civile insieme a Fukushima: la sua onda lunga, come ben sappiamo e abbiamo documentato, produce effetti devastanti sull’ambiente e sulla salute di milioni di persone ancora oggi, e non conosce frontiere. Lo abbiamo dimostrato anche con i progetti di solidarietà che dagli anni ’90 ci hanno permesso di monitorare e curare oltre 25mila bambini bielorussi, ucraini e russi, vittime della radioattività ancora presente in quelle aree. E’ un monito per l’Europa e l’Italia che hanno il dovere e la responsabilità di chiudere in sicurezza con il nucleare e la sua pericolosa eredità, e di contrastare lo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi –– In questo percorso, l’individuazione di un Deposito Nazionale per i rifiuti a media e bassa attività è un tassello fondamentale che però richiede la massima trasparenza dell’iter, la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini: serve perciò garantire la procedura del dibattito pubblico su tutte le opere nel nostro Paese, a partire da questa, per assicurare il diritto al confronto e all’informazione sui contenuti dei progetti, all’ottenimento di risposte e tempi certi su questioni che investono il presente e il futuro dei territori».
per Legambiente, «Trasparenza delle informazioni e qualità dei progetti sono dunque la base per un confronto serio che consenta di affrontare i problemi, ridimensionare lo spazio della sindome “nimby” dei cittadini, (not in my backyard, ossia non nel mio giardino) e “nimto” degli eletti (not in my terms of office, non nel mio mandato) e quello per le fake news», così come sintetizzato nel Manifesto per il dibattito pubblico sulle opere della transizione ecologica siglato pochi giorni fa insieme ad altre 13 associazioni e inviato al Governo Draghi.
Per Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, «Le aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito sono state individuate adottando criteri omogenei sull’intero territorio nazionale e con una procedura che prevede approfondimenti in una fase successiva, con analisi più dettagliate nei soli siti effettivamente interessati. Pur essendo comprensibile il principio, alcuni aspetti di carattere generale sono stati tuttavia trascurati o erroneamente interpretati in questa prima fase e difficilmente potrebbero essere recuperati o modificati successivamente. Il tutto genera una serie di perplessità, domande e necessità di chiarimenti che non possono essere risolti con la sola fase di osservazione».
Ecco le osservazioni di Legambiente:
Anzitutto, c’è il capitolo rischio idrogeologico: i rapporti descrittivi delle aree “potenzialmente idonee” partono dal presupposto che i documenti cartografici disponibili oggi – siano essi regionali, nazionali o delle Autorità di Distretto – siano assolutamente esaustivi. Tuttavia, le carte di pericolosità idraulica e geomorfologica utilizzate (riguardanti cioè il rischio frane e alluvioni) sono state in alcuni casi fuorvianti, poiché sussistono vuoti conoscitivi non colmati o aggiornamenti non recepiti. Dove c’è una “mancanza del dato”, infatti, questo è stato erroneamente interpretato come mancanza di pericolosità; laddove l’aggiornamento non è ancora stato recepito si è creata una difformità nello stato di fatto dell’area. I continui aggiornamenti in corso sono dovuti anche alla velocità con cui il territorio stesso si è trasformato negli anni, come nel caso di consumo di suolo ed edificazioni, portando a una non corrispondenza tra la cartografia utilizzata e la realtà dei luoghi.
Del tutto manchevole, poi, un’analisi del rischio di incidente rilevante del Deposito unico: eppure, secondo le Linee Guida di Ispra, andrebbero verificate “la rispondenza a fronte degli eventi naturali ed antropici ipotizzabili in relazione alle caratteristiche di sito” ed effettuate “le verifiche in merito all’impatto radiologico in condizioni normali ed incidentali sulla popolazione e sull’ambiente”. Tra i dati meteoclimatici presentati negli elaborati, ad esempio, mancano quelli relativi al vento in quota, essenziali per determinare la possibile ricaduta di sostanze radioattive in caso di incidente.
Manca, ancora, un’analisi di rete degli elementi considerati, anch’essa espressamente richiesta da Ispra: l’impatto del Deposito nazionale, infatti, è rilevante per aspetti come quello paesaggistico, archeologico, storico e naturalistico nel loro complesso, e una mancanza di analisi dell’interrelazione di ciascuno di questi elementi distribuiti sul territorio appare perciò non giustificata.
Considerazioni analoghe valgono per le aree protette e di interesse naturalistico: in molti casi, le aree proposte sono inserite in un sistema di aree protette che non può essere considerato come composto di elementi indipendenti tra loro, ma che è rete nel suo complesso. Inoltre, in questa fase non viene tenuto conto delle condizioni che concorrono alla conservazione di un’area protetta, sempre strettamente legate a “un’area d’influenza più ampia”, e che dipendono anche dalla possibilità di stabilire specifici corridoi ecologici.
In ultimo, è interessante osservare come sia stata utilizzata una discrezionalità nella definizione e applicazione di alcuni criteri: nel primo livello di analisi sulla viabilità stradale, ad esempio, sono state escluse “tutte le aree poste a meno di 1 km dalle autostrade, superstrade e strade extraurbane principali, corrispondenti alle strade che consentono il maggiore volume di traffico e la massima velocità di spostamento”. Ciò a dispetto del fatto che il termine “superstrada” non è contemplato né a livello amministrativo né giuridico: ci si chiede dunque come questa nuova tipologia di strada sia stata identificata e censita nei vari siti. La mancanza di elementi certi porta a ipotizzare un possibile approccio discrezionale nell’applicazione del criterio escludente 13 come definito da Ispra: in base al numero di strade extraurbane secondarie considerate dal valutatore, possono infatti aumentare o diminuire le aree potenzialmente idonee per il deposito unico nazionale.