Cop26: processo all’Unfccc al People’s Summit for Climate Justice

Colpevole di aver violato le dichiarazioni Onu sui Diritti Umani favorendo le partnership con chi ha causato la crisi climatica, ignorando i paesi più colpiti

[8 Novembre 2021]

Il People’s Summit, la COP26 alternativa in corso da ieri a Glasgow e che termina il 10 novembre, si è aperta con un record di adesioni e la coordinatrice del programma, Jana Ahlers ha sottolineato che «E’ incredibile vedere così tante persone registrarsi per il People’s Summit e così tante sessioni esaurite. Volevamo creare uno spazio alternativo e stimolante lontano dai negoziati delle Nazioni Unite sul clima che ribaltasse il copione coloniale, mettendo in primo piano quelli più spesso messi a tacere. L’enorme popolarità del primo giorno del People’s Summit dimostra che le persone hanno bisogno di questo».

Il primo giorno si erano registrate 12.000 persone, sia in presenza che online, e quasi tutte le sessioni del summit erano al completo. I momenti salienti includevano la manifestazione ”A Global Green New Deal and how to win it” ad Adelaide Place con la deputata britannica verde Caroline Lucas  e, soprattutto,  “The People vs the UNFCCC”, dove c’è stato un vero e proprio processo popolare contro l’United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc) che ha visto la partecipazione di relatori  come  Lumumba Di-Aping, ex capo negoziatore per i paesi del G77 + Cina, e il “pubblico ministero” Pablo Solon, direttore della Fundacion Solon ed ex negoziatore climatico e rappresentante all’Onu della Bolivia.

Come spiega Laura Greco per A Sud da Glasgow, «Il Tribunale è stato istituito per la prima volta nel 2014 con il nome di Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura per volontà dell’Alleanza globale per i diritti della natura, una rete globale di movimenti nata per individuare i responsabili delle violazioni dei diritti della Natura e delle comunità che la difendono. Il Tribunale mette in scena un “mondo ideale” in cui la legge e le autorità agiscono dalla parte della Natura. A Glasgow il Tribunale si riunisce per la quinta volta dalla sua nascita prendendo in esame due questioni fondamentali: le false soluzioni dei governi nel contrasto al cambiamento climatico e la difesa dell’Amazzonia che in questo processo svolge il ruolo di “vittima climatica”. A svolgere il ruolo di pubblico ministero Pablo Solón, Direttore della Fundacion Solon e in passato rappresentante della Bolivia presso le Nazioni Unite.

Ivonne Yáñez, attivista ecuadoriana di Accion Ecologica, ha denunciato: «Vogliamo che l’Amazzonia sia riconosciuta come soggetto di diritti. L’Amazzonia vivente è sull’orlo del collasso. Se non facciamo nulla ora, non sarà lì tra 10 anni».

L’accusa ha portato a suo sostegno moltissime testimonianze che hanno descritto in 5 punti i fallimenti dell’Unfccc: «L’obiettivo è utilizzare il carbonio come una merce di scambio di tipo finanziario, trasformare la Natura in una cloaca continuando a sfruttarla così come vengono sfruttate le donne e le popolazioni del Sud del mondo. Le false soluzioni sono un business che non tiene in considerazione le persone e il clima».

Prima di tutto, i Paesi aderenti all’Unfccc (praticamente tutti) avrebbero fallito nell’individuare le cause del cambiamento climatico e nel minimizzare il ruolo del sistema economico e dell’industria fossile nella distruzione del nostro pianeta.  Poi, racconta la Greco, il processo popolare è passato a «indicare i fallimenti legati al riconoscimento delle ingiustizie sociali ed economiche causate dai cambiamenti climatici, con un focus sul mancato rispetto dei target di emissione e sul forte attacco alla giustizia intergenerazionale che dovrebbe tutelare i più giovani».

Portando la sua testimonianza, Mitzi Jonelle Tan di Fridays For Future Filippine, ha detto: «Sappiamo che il cambiamento non verrà mai dai meeting dell’Unfccc. Sono cresciuta sentendomi ripetere di continuo che noi giovani siamo il futuro, ma di quale futuro stiamo parlando se i capi di Stato non ascoltano le nostre parole e ci chiedono di scendere a compromessi sulla nostra vita?».

La terza accusa all’Unfccc è stata quella della mancanza di una strategia di finanza sostenibile per evitare il crescente indebitamento dei Paesi del Sud nei confronti dei Paesi del Nord responsabili dell’inquinamento del pianeta e Lidy Nacpil di Apmdd, rete di associazioni di tutta l’Asia impegnate sul tema del debito dei popoli, ha ammonito: «E’ necessario prevedere un finanziamento di chi inquina di più per i Paesi del sud globale che sono i più colpiti dalle emissioni dei Paesi più ricchi».

L’ultima parte delle accuse ha messo in evidenza l’assenza di strategie per arrivare alla transizione ecologica e l’incapacità dell’Unfccc di regolare il comportamento delle grandi imprese inquinatrici: «Di fatto l’Unfccc ha permesso che le imprese continuassero a portare avanti false soluzioni, permettendo anche agli stati di avere degli obiettivi di riduzione evidentemente insufficienti», ha concluso l’economista Patrick Bond.

Al termine dell’accusa il rappresentante della giuria ha letto il verdetto dichiarando l’Unfccc  «Colpevole di aver violato le dichiarazioni delle Nazioni Unite sui Diritti Umani favorendo le partnership con i soggetti che hanno causato la crisi climatica e fallendo nell’ascolto delle richieste dei paesi più colpiti dal cambiamento climatico».

Il famoso ambientalista nigeriano Nnimmo Bassey, ha ricordato che «La Cop ha avuto il tempo necessario per studiare una strategia di phase out dai fossil fuels. Invece i governi continuano a difendere gasdotti e difendono gli interessi delle grandi corporations. L’inquinamento di queste industrie mette a rischio la vita delle persone sulla terra. Solo l’ultimo anno ci sono state 1300 sversamenti di petrolio, quasi 5 al giorno Un record. Tuttavia la Cop continua il suo business as usual».

Lisa Mead, giurata del Tribunale e co-fondatrice di Earth Law Alliance, ha riassunto così il verdetto: «La nostra giurisprudenza deve essere profondamente rivista perché possano finalmente essere riconosciuti i diritti della natura e la sicurezza dei popoli che la abitano».

Il panel “Reparations, Debt and Climate Justice”, coordinato da Global Justice Now e dai Fridays For Future Most Affected People and Areas (FFF MAPA) si è occupato del rapporto tra giustizia climatica e disuguaglianza tra Sud e Nord del mondo. Come sottolinea la Greco, «I paesi del Sud del mondo hanno ormai accumulato verso i Paesi industrializzati un debito economico che sono di fatto impossibilitati a saldare. E sono proprio questi Paesi, spesso impoveriti da una dinamica economica che li opprime costantemente, a subire le conseguenze più drammatiche del cambiamento climatico».

La Yànez ha raccontato quale è la situazione nei Paesi in via di sviluppo: «Per poter pagare i creditori dobbiamo continuamente estrarre nuove risorse tra cui il petrolio e devono esportare i prodotti dell’agrobusiness, sfruttando i loro stessi territori senza poter beneficiare dei guadagni economici». L’Ecuador, infatti, ha attualmente un debito estero di 60 miliardi di dollari, ma il danno reale fatto alle popolazioni ecuadoriane dallo sfruttamento delle compagnie internazionali e dei paesi ricchi è quasi il triplo. Una proporzione del tutto squilibrata ai danni delle popolazioni più marginali.

Per questo ad oggi molti Paesi del Sud del mondo chiedono la cancellazione del debito estero e il riconoscimento del debito dei Paesi ricchi derivante dallo sfruttamento dei Paesi colonizzati. Senza la capacità dei paesi di rispondere all’emergenza climatica ed effettuare una transizione ecologica è di fatto assai limitata.

Le/gli attiviste/i di FFF MAPA provenienti da Messico, Kenya, Bangladesh, Sudafrica e Malaysia hanno definito la COP26 Unfccc «Una sfilza di uomini bianchi provenienti da Paesi ricchi che prendono decisioni avanzando i loro interessi capitalisti e colonialisti a scapito delle popolazioni più fragili».

Posizioni che ormai sembrano irriducibili e che dimostrano la totale sfiducia di chi fa ogni giorno azione climatica – spesso rischiando la pelle – sui territori, scontrandosi spesso con i governi e le grandi companies che alla COP 26 stanno promettendo un mondo più verde e meno ingiusto.  Viene in mente quello che scrive oggi su Rinnovabili.it l’ex presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza del Coordinamento Forum Disuguaglianze e Diversità: «Le manifestazioni, gli slogan di Milano e di Glasgow ci stanno dicendo che la giustizia climatica è il cuore della transizione ecologica, perché questa non è solo una scelta tecnologica, ma investe tutta l’organizzazione della società, e su di essa le disuguaglianze pesano come macigni. E sono disuguaglianze multidimensionali, non solo di reddito, ma anche di genere, di generazioni, di luoghi, di cultura».