Il ministro della Transizione ecologica sul Financial Times, contro Nimby&Nimto
Rinnovabili o barbarie: Cingolani, accettiamo nuovi impianti o rinunciamo all’energia
«L'alternativa è sbarazzarsi dell'auto, dell'aria condizionata, del telefono cellulare e di Internet. I cittadini devono capirlo»
[20 Dicembre 2021]
Sulle pagine di uno tra i più autorevoli quotidiani economico-finanziari al mondo, il Financial Times, Roberto Cingolani si lancia in un appello contro le sindromi Nimby (non nel mio giardino) e soprattutto Nimto (non nel mio mandato elettorale) che stanno bloccando la corsa delle rinnovabili italiane.
Di fronte a una crisi climatica che nel nostro Paese corre già a velocità doppia rispetto alla media globale, senza nuovi impianti industriali per catturare le energie rinnovabili disponibili sul territorio – da solare all’idroelettrico, dall’eolico alla geotermia alle biomasse –, semplicemente non avremo altre fonti cui affidarci.
«L’alternativa è sbarazzarsi dell’auto, dell’aria condizionata, del telefono cellulare e di Internet. I cittadini devono capirlo», dichiara Cingolani.
Di fatto però sono anni che in Italia le nuove istallazioni procedo a passo di lumaca. Secondo gli ultimi dati messi in fila dal think tank Ember, riportati anche dal Financial Times, dal 2015 al 2020 sono arrivati meno di 2 GW di nuova capacità eolica e 3 GW di capacità solare, mentre per raggiungere gli obiettivi europei al 2030 dovremmo installare circa 8 GW di impianti rinnovabili l’anno.
Una mancanza d’ambizione che risulta ancora più chiara confrontando i target del nostro Paese, dettagliati in un Piano nazionale energia e clima (Pniec) nato vecchio e ancora non aggiornato dal Governo Draghi di cui fa parte Cingolani, con quelli degli altri Stati membri dell’Ue: Austria, Danimarca, Germania, Portogallo, Spagna, Svezia e Paesi Bassi hanno l’obiettivo di coprire il 75% o più del loro consumo di elettricità con fonti rinnovabili entro il 2030, mentre il vecchio Pniec italiano punta solo al 55%.
Certo, le responsabilità dello stallo non sono tutte del Governo ma si ritrovano con abbondanza nelle varie strutture dello Stato diramate sui singoli territori. Non a caso il ministro ha ricordato al Financial Times che abbiamo 3 GW di impianti di rinnovabili fermi, anche se hanno una Valutazione di impatto ambientale favorevole, bloccati dalle Soprintendenze del ministero della Cultura per l’impatto paesaggistico. Se questo dato però non è cambiato di una virgola neanche negli ultimi due mesi, evidentemente qualche problema c’è ancora.
Il ministro però preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno, affermando che da quando Draghi si è insediato alla guida del Governo è partita una «fortissima semplificazione» nel permitting degli impianti, tanto che i funzionari stimano che il tempo necessario per ottenere un permesso per un progetto infrastrutturale potrebbe essersi ridotto «da 1.200 a 270 giorni, che è il best in class».
Di fatto però gli incentivi già disponibili per le rinnovabili stanno ancora girando a vuoto perché non ci sono sufficienti impianti autorizzati da incentivare, e anche il recente decreto Semplificazioni ha tutto l’aspetto di un ennesimo buco nell’acqua nonostante alcuni miglioramenti giunti con provvedimenti successivi.
Secondo il Coordinamento Free, ovvero la più grande associazione italiana nel campo delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica del nostro Paese, di questo passo gli obiettivi sulle rinnovabili previsti per il 2030 saranno traguardati in Italia solo al 2065.
Per evitare uno scenario catastrofico, dal Coordinamento hanno presentato quattro proposte operative, ancora inascoltate, alle quali resta imprescindibile abbinare sia un ascolto attivo dei territori coinvolti dagli impianti in progetto (tramite dibattiti pubblici), sia una maggiore condivisione dei benefici socioeconomici legati alla presenza degli impianti (ad esempio tramite lo strumento del crowdfunding). Su tutto, però, soprattutto un ingrediente sembra mancare: dopo l’ascolto, alla politica dobbiamo chiedere il coraggio di decidere senza pretendere prima un consenso unanime nell’elettorato.